parla Roberta Ravaioli
dipendente Unione Valle del Savio e volontaria nei primi soccorsi a Cesena
(L’intera intervista viene fatta di fronte al centro commerciale Lungosavio di Cesena, completamente sventrato dall’acqua e ora un guscio disabitato, ripieno solo di immondizia. Il frastuono delle idrovore che pompano acqua e fango è incessante.)
“Fin dalla sera di martedì 16 sono andata alla Don Milani vedere di cosa avessero bisogno. Ho cominciato a fare la spola da casa mia alla scuola, dove arrivavano i primi alluvionati, a portare le cose di prima necessità: c’era bisogno di scarpe, di vestiti, di giochi per bambini che erano lì, spaventati. C'era ancora molta confusione. C'era anche tanta paura.
"C’era bisogno di scarpe, di vestiti, di giochi per bambini che erano lì, spaventati. C'era ancora molta confusione. C'era anche tanta paura."
Eravamo in tre o quattro, inizialmente. Volevamo aiutare, ma non sapevamo ancora bene come stava organizzandosi il Coc. Ad un certo punto ci hanno informati che la scuola Don Milani sarebbe diventato un centro di raccolta e smistamento di materiali e di cibo. Per cui, in maniera spontanea (perché nessuno di noi è esperto di queste cose. Io mi occupo di informatica) e con delle indicazioni telefoniche, ci siamo messi a pensare come poter organizzare le cose.
Nel frattempo, tutte le persone del quartiere continuavano a venire per chiedere di cosa avessimo bisogno. Io abito qui da tanti anni: conosco il bidello della scuola, gli amici dei miei figli, i loro genitori.
Il giorno dopo, l'Amministrazione comunale mi ha contattato per sapere se ero ancora disponibile ad aiutare. Sono tornata, assieme a una volontaria di Protezione civile e ad altri colleghi. È iniziata così.
Tutti portavano qualcosa. Fin da subito e non solo da Cesena, ma anche da fuori. Hanno cominciato a chiamare per portare donazioni anche da Bologna o da Fano. Eravamo sommersi di materiale, e da una parte tutto questo era molto bello, ma dall'altra molto difficile, perché non sapevamo come gestirlo.
"Tutti abbiamo pensato, nel momento di acquistar la casa, se acquistarla lì o dove poi l'abbiamo davvero comprata. Abbiamo pensato tutti ‘se avessimo acquistato la casa lì, sotto ci saremmo stati noi.’"
C’era molto pathos, perché la gente da aiutare erano persone che avevamo frequentato fino al giorno prima. Erano i nostri amici. Che, soltanto perché abitavano a 200 metri di distanza da noi, si trovavano in una situazione del genere. Questo ci ha dato motivazione e l’adrenalina per stare lì anche dodici, tredici ore al giorno, andando a casa solo per dormire. (…)
Tutti noi -quelli che erano vicini e che non avevano avuto danni- ci sentivamo quasi un po’ in colpa perché abitavamo veramente a 200 metri dalla zona del disastro. Tutti abbiamo pensato, nel momento di acquistar la casa, se acquistarla lì o dove poi l'abbiamo davvero comprata. Abbiamo pensato tutti ‘se avessimo acquistato la casa lì, sotto ci saremmo stati noi.’
C’erano anche tantissime telefonate, ma talmente tante!
Durante i primi giorni la centralina elettrica del centro Don Milani era andata sott’acqua: non avevamo l'elettricità e andavamo con un generatore. Per cui usavamo tutti i nostri telefoni personali. Il mio telefono era andato in tilt, tante erano le chiamate che ricevevo. Mettevo nel mio stato whatsapp: ‘sono alla Don Milani, ci serve pane, ci serve frutta’ e in questo modo le persone che mi conoscevano facevano tam-tam e nel giro di mezz'ora arrivavano le cose che avevamo richiesto.
In alcuni momenti eravamo veramente stanchi. Però le persone che conosciamo, che erano in difficoltà, ci hanno sempre detto ‘Voi siete stati un nostro punto di riferimento’ e questo ci ha permesso di andare avanti anche per tanti giorni, nonostante la grande tensione emotiva.
C'erano davvero tantissimi volontari, soprattutto persone che abitavano lì vicino, che ci raggiungevano a piedi. Perché appunto, essendo la città divisa in due, avevamo due centri: uno a destra del ponte e uno a sinistra. Più avanti è stato deciso di fare un unico centro per Cesena, ma all’inizio, avendo in città due centri di smistamento, abbiamo dovuto anche imparare a coordinarci. Ecco perché già da mercoledì 17 avevamo messo su una pagina Facebook dove pubblicavamo le richieste e nel giro di 15 giorni siamo arrivati a 3000 follower, non pochi per una cittadina come Cesena. (…) Quando ci chiedevano qualcosa, pubblicavamo la richiesta e nel giro di mezz'ora arrivava. Ricordo che avevamo bisogno di tre o quattro alimentatori per cellulare: ne sono arrivati 50.
"Quando ci chiedevano qualcosa, pubblicavamo la richiesta e nel giro di mezz'ora arrivava. Ricordo che avevamo bisogno di tre o quattro alimentatori per cellulare: ne sono arrivati 50."
Ci siamo trovati anche a organizzare situazioni che mai avremmo pensato di riuscire a gestire. La volontà di rimettersi in piedi e fare qualcosa per la nostra città ci ha portato a superare anche la stanchezza. (…)
Dovevamo coordinarci con l'altro centro e quello era un appesantimento. (…) Nel primo weekend, quando erano arrivati tantissimi volontari a spalare il fango da tutte le parti d'Italia, c'è stato veramente molto da fare. La gestione dei pasti è stata molto impegnativa: solo dal nostro centro sono stati fatti uscire circa 3000 pasti. Non è stato semplice mettere d'accordo tutti i ristoranti - erano arrivati anche mille panini da Bologna!
Mercoledi, giovedì e venerdì sono stati i giorni peggiori. Dopo, dall'Amministrazione sono venuti a vedere la situazione. (…) Abbiamo organizzato dei turni lavorativi. Da quattro o cinque che eravamo all’inizio, siamo arrivati ad essere una trentina. Ci siamo divisi in gruppi da 15. E poi il secondo centro di smistamento, che era dall'altra parte di Cesena, è stato chiuso. Tutto il materiale è stato portato qui.
"Mandavamo i volontari a portarli agli alluvionati, ma ce li rimandavano indietro. Non li volevano, dicevano ‘no, non ne abbiamo bisogno. Date a chi ha più bisogno di noi’. Dopo 3 o 4 giorni però, tornavano a chiederli."
Dal lunedì dopo, le cose sono andate meglio. All’inizio pensavamo che ci sarebbero state meno richieste. Invece le persone che magari erano state sfollate e poi rientravano a casa, cominciavano in quel momento a chiedere. C’è un fatto che mi ha impressionato. All'inizio noi avevamo distribuito dei ‘kit’, delle scatole che contenevano strumenti per la pulizia, medicine, bevande e cibo in scatola. Mandavamo i volontari a portarli agli alluvionati, ma ce li rimandavano indietro. Non li volevano, dicevano ‘no, non ne abbiamo bisogno. Date a chi ha più bisogno di noi’. Dopo 3 o 4 giorni però, tornavano a chiederli. Si rendevano conto di averne bisogno anche loro. E’ stata una cosa che mi ha molto colpito: questa dignità nel voler provare a fare da soli.”