Trascrizione

Trascrizione

Jacopo Frenquellucci:

Non è quello che è stato perso, ma è quel che cresce. “Il primo castagno” è un podcast della Regione Emilia-Romagna con lo scrittore casolano Cristiano Cavina che a partire dal suo ultimo libro “Tropico del fango” ci racconta i due anni dopo l'alluvione di maggio 2023. Perché essere tristi e spietati è troppo normale.

Dialogo tra Jacopo Frenquellucci – Regione Emilia-Romagna (JF) e lo scrittore Cristiano Cavina (CC)

JF:

Quando tu parli, ma anche tutti i protagonisti dei tuoi racconti, non c'è quel rancore quell'odio nei confronti o delle Istituzioni o della natura che invece se guardiamo che, per carità, magari sono un po’ il buco nero dell'umanità, se guardiamo i social, se guardiamo i media. C'è sempre quella rabbia, c'è chi racconta che è stato abbandonato, chi insomma ha sempre da protestare. Sei tu che hai questa visione o in verità c'è una realtà che è molto differente da quella narrazione rancorosa?

CC:

No, no, un po’ è dovuto al fatto che avendolo vissuto e non essendo esterno, io per quello che ho vissuto sono stato fortunato e magari posso pensare in modo più sereno al fatto che comunque, per quanto mi riguarda, chi ha fatto l'allertamento a me e alla mia famiglia ci ha salvato la vita. Poi è ovvio che ho perso, ho perso anche di bene. O probabilmente se avessi perso la macchina e avessi dovuto buttare via la cucina, magari qualche bestemmia sui social, chissà, l'avrei scritto anch'io. Il fatto è che io cerco sempre di tenere bene a mente il fatto che io sono un narratore, so che adesso giustamente molte mie colleghe o colleghi, giustamente raccontano anche in base alle loro lotte, alle loro convinzioni, a quello che pensano. Io, a parte che non penso di avere chissà quale idee sull'operato di altri. Non sono un idraulico, non sono un politico, non sono …Io racconto le persone e quello che sento io rispetto a quello che vedo. E poi in realtà non saprei neanche cosa dire, cioè nel senso che io davvero non so. Se c'è la colpa di chi è? Io so quello che so. So come scorre il Senio, a Casola e se uno pensa che il Senio scorre in mezzo a un bosco, un prato sbaglia perché scorre in mezzo alla foresta e inevitabilmente ti porta giù un sacco di legna. Poi capisco che magari c'è modo di ma io queste robe mi sembrano tutte secondarie per quello che devo fare io. Se fossi un giornalista sarebbe un crimine, non cercare vari motivi, ma io non faccio quella roba lì, o almeno non per come racconto questa cosa, anche perché altri la fan meglio di me. E poi non ha neanche senso. Perché poi, dopo diventa tutto una partita a tennis. E quindi ripeterei delle persone. Sai, su questo è cambiato molto. Una volta se avessi avuto qualcosa da dire, avresti dovuto scrivere la lettera al giornale e la leggeva solo chi leggeva lettere al giornale. Se no ti fossi espresso, saresti andato nei comizi, nelle cose. Adesso letteralmente chiunque ha una platea infinita può urlare in piazza e scrivere su Facebook, ma non cambia molto perché poi dopo diventa il coro per una parte e il coro dall'altra. Io mi tengo fuori da tutti e due i cori perché non è, non è quello che devo fare, che sento di dover fare. E poi non saprò neanche chi dare la colpa sinceramente. Cioè, se devo pensare letteralmente a chi do la colpa della mia casa che si è alluvionata, cioè io posso in tutta sincerità, pescando dentro di me, trovando le motivazioni a dire. È colpa del Sindaco, è colpa della Provincia, è colpa, non so, degli alberi non ne ho idea. Interessano quello che c'è nel cuore delle persone, più che raccontare se qualcuno è arrabbiato, che mi viene proprio l'immagine di qualcuno. Però deve essere legata a una storia, se è solo per dire. È giusto o sbagliato? Non è una storia, sono aneddoti, opinioni e io non faccio quella roba lì.

JF:

Non per insomma scomodare Proust, ma oltre a letteratura, tu nel tuo libro citi un sacco di film. Inizi col Fosso di Helm, le Due Torri. Poi ci sono tanti ???. Solarolo come Star Wars e via dicendo. Ma adesso che film stai vivendo? Due anni dopo l'alluvione, che film c’è?

CC:

Non lo so. Questa è una domanda difficile, non so mica dire. So che ho citato Pulp Fiction, la valigetta di Figliolo che si apre, non sai mai i soldi, ma vedi solo la luce, come quella di Vincent Vega e Jules, no, non lo so. Sai che poi adesso mi hai fatto venire in mente che io è una vita che non guardo film, io questa cosa che non consumo neanche a casa, il cinema. Io non guardo le serie. Non ho neanche nessun abbonamento a nessuna piattaforma particolare. Nella TV normale le mie bambine guardano i cartoni animati, io ogni tanto mi concedo l'inverno, qualche puntata di uomini e donne, il trono senior che è l'unica cosa che guardo perché boh non lo so mi fa ridere e lo leggo insomma poi mi rincuora a pensare. Intanto sogno anche di diventare anch'io tronista senior. Ho questi sogni un po’ che non fanno parte, non dovrebbero far parte dell'immaginario di uno che scrive, in realtà non guardo mai la televisione. Cioè, ti parlo di un'ora di uomini e donne in due mesi, perché poi non ci guardo, anche perché la televisione si è spostata nel telefono, se devo guardare nel telefono guardo specificatamente le cose che mi interessano. No? Quindi non ti so dire perché, se c'è stato un momento il giorno dopo l’alluvione che avrei detto è una roba tipo alla Walking Dead. Non so come dire, a una serie post apocalittica. Quello mi ricordo che l'avevo vista una decina d'anni fa il primo episodio e adesso non lo so perché poi c'è sempre quella parte che uno sottovaluta. Quando c'è l'emergenza, anche nel dolore, anche nella paura, ti dà una scarica di adrenalina incredibile, l’adrenalina è una droga potentissima. E adesso che non c'è l'emergenza così tu senti un po’ il vuoto di quella incredibile vitalità che avevi nei momenti di pericolo. Quindi ci vorrebbe un film che racconta questa sorta di rilassamento o rilasciamento dell'anima, quando vai in down non so come dire quando vai giù. Non so che film potrebbe essere, forse magari sai meglio di me. Però non lo so. Poi vengono le serie TV, ma neanche non ho visto neanche tante. Ah. Una serie che vidi quando ancora non c'era Internet era per me è la serie più bella, è Quantum Leap, non so se l’hai mai vista. Lui è il professore che viene per un esperimento quantistico, rimane intrappolato nel tempo, lui ogni puntata salta nel tempo e si incarna in qualcuno che non sa chi è, lo deve scoprire un po’ alla volta e un suo collegamento nella realtà gli dice cosa deve fare, perché sa già come va a finire. Deve fare una cosa prima che questa persona, per poter saltare ed evitare che questa persona muoia.

E c'è una puntata di Quantum Leap, una delle puntate finali in cui lui salta in strada Taverna, inizio ‘900 vicino alla miniera e praticamente scopri che in realtà il barista è Dio. E praticamente poco prima che ti dicano che il professor Samuel Beck, si chiama così, non tornerà mai a casa e continuerà a saltare sempre nel tempo. E lì se ci arrivi molto carico perché lì pensi, sai che sta finendo? E dici OK, il prossimo salto lo fa a casa. E c'è quell'attimo fra l'inevitabile fine. E la felicità è l'eccitazione del finalmente, vedere come va a finire, cioè quella via è un interregno di non so. Malinconica attesa, un misto tra rimpianto, desiderio, non lo so, forse quella roba lì.

JF:

Adrenalina, rimpianto, qui siamo tutti un po’ ??Magrini, burdel de paciùg

CC:

Paciùg sì adesso i burdel de paciùg che sono proprio termini dialettali che non sono casolani quindi mi sembra sempre molto, no scherzo….

JF:

Mettiamoci sottotitoli come Gomorra.

CC:

Non riesco mai, no, io con quella roba lì, anche dopo, io vi voglio bene sempre a tutti, ma quella cosa lì della Romagna mia, io poi ogni tanto la canto quando sono un po’ avinazzato, lontano dalla madrepatria.

Però lì per lì, gli angeli del paciugo. Sì, insomma, si chiama così. Li hanno sempre chiamati così, anche nelle alluvioni, a Genova, negli altri posti. No, non è che mi manca, anzi, io stavo bene anche senza. Però inevitabilmente guarda, c'è un motivo per cui chi lo fa di mestiere, i soldati, gli piacela guerra. Anche se sai che muori, c'è la scarica che ti mette la verità, che ti mette la storia con la S maiuscola. Perché anche se nel nostro piccolo spicchio di mondo, quell'evento è la storia con la S maiuscola, cioè una cosa che finirà nei libri, se ne parlerà. Com'è finito nei libri l'alluvione di Firenze, come ci ricordiamo dell'alluvione del 1643, perché qualcuno l'ha scritto quella roba lì, per quanto orrenda, brutta e triste sia, e han detto che nessuno ti pagherà mai la macchina e non potrai più avere indietro le foto, però è evidente, il giorno dopo il sopravvissuto hai una carica addosso che è quasi, cioè che quando non c'è più la senti la differenza, preferiresti aver tenuto tutto, ma c'è quell'attimo in cui sopravvivi e ti dai da fare per ricostruire ciò che è stato distrutto. Non so sembra proprio di avere appieno il peso, l’intensità del vivere, non il mercoledì come ce ne sono un miliardo di mercoledì in tutta la tua ma, il giorno leggendario, nel bene o nel male, ??ha una potenza che non sempre nella vita un'intensità. Che non sempre la nostra vita. Ed è per quello che gli eventi catastrofici, ma parlo anche di guerra, gli eventi brutti hanno comunque un fascino e una loro potenza a prescindere. Anche se ti fanno male, c'è l'intensità in cui senti le cose in cui ti senti dentro il tuo tempo.

JF:

Ma è questa intensità che, ad esempio, ti ha fatto sentire particolarmente legato a Chiara Chiarin, la tua amica di cui racconti nel libro che stava Valencia, e quando hai letto delle alluvioni a Valencia ti è subito venuto naturale sentirla e sentire questo forte legame con lei.

CC:

Sì, anche. E la cosa buffa è che io e Chiara, quando eravamo compagni a scuola non eravamo amici, nel senso. Sì, ci salutavano così, ma non avevamo legato. No, capita con persone che non lego. Poi quando ho saputo, ma sai lì perché lei è stato forse un tramite, perché io quando ho pensato a Valencia ho pensato che quello che poteva succedere a me, se non avessi avuto l'alluvione prima, che ci ha messo in guardia e le allerte. Cioè, letteralmente, ho visto la mia macchina e me essere trascinato via da quelle cose. Non l'ho visto in diretta, l'ho ricostruito dopo riguardando le notizie, così. E io, davvero, volevo mandarle un messaggio perchè di solito con le persone non conosci bene, ci parli per messaggio diciamo. Poi dopo che ho visto queste auto trascinate, che ho visto il conto dei morti, cento, duecento, cioè, ho detto no devo telefonare. Devo telefonare e sentire. Io di solito non sono così. Io faccio fatica a parlare a livello personale con qualcuno fuori dalla mia famiglia e dal gruppo di amici che ho. Non sono molto espansivo, mi imbarazzano. Eppure, lì con Chiara ho detto, so come si deve sentire, perché l'abbiamo passato anche noi, bisogna che senta la voce, perché a me m'ha fatto piacere quando i miei amici che non erano, che non vivono qua, che non sono romagnoli, mi han chiamato la mattina dopo, anche solo per vedere se ero vivo come stavo, se avevo perso qualcosa. Ma m'ha fatto piacere. Anche quelli che non erano amici, amici, ma ti chiamano e ti dicono. Oh, tutto bene? Anche solo per potergli dire sì, tutto bene. Non hai idea di cosa è successo. E quindi sì. È stato quello.

JF:

Avete ascoltato un dialogo libero tra lo scrittore Cristiano Cavina e il giornalista Jacopo Frenquellucci

“Il primo castagno” è un podcast dell'Agenzia di informazione e comunicazione della Regione Emilia-Romagna.