Professoressa associata di Diritto amministrativo, Alma Mater Studiorum di Bologna

La leale collaborazione, “pilastro” del regionalismo cooperativo

Tra i numerosi motivi di attesa della pronuncia della Corte Costituzionale sulla legittimità della legge n. 85/2024, cd. legge quadro di attuazione dell’art. 116, comma 3 Cost., vi era anche il seguente: quanto sarebbe rimasto in vita del modello di regionalismo di tipo cooperativo? La domanda non poteva non sorgere, considerando il sistema di riparto delle competenze tra i diversi livelli di governo delineato dalla Costituzione ed il modo in cui la stessa Corte lo ha sinora interpretato. Esso, per la sua intrinseca natura di compromesso tra unità e autonomia, e per come si è atteggiato in concreto, non riesce ad escludere sovrapposizioni ed interferenze, e quindi, per perseguire obiettivi di interesse nazionale, la leale collaborazione è sempre stata ritenuta imprescindibile. Ma la cooperazione non esaurisce il suo scopo nel garantire il buon funzionamento del sistema. La preoccupazione che da sempre muove i sostenitori del modello del regionalismo cooperativo è che qualsiasi diversa soluzione possa aprire a svolte autoritarie (Amato, 2023). Il ragionamento è generalmente svolto rispetto a possibili prospettive neo-centralistiche, ma è senz’altro estensibile anche alla creazione di regioni dotate di poteri (anche formalmente) più forti di altre; regioni che – per la stessa modalità prevista in Costituzione per l’ottenimento di tali forme particolari di autonomia – instaurino un rapporto privilegiato con il Governo, a scapito di altre parti del Paese, alimentando così la già presente insoddisfazione della popolazione per i divari territoriali esistenti, fino ad esasperare il conflitto sociale ed a sortire la richiesta di un ritorno ad un sistema più accentrato.

Ebbene, quanto alla nostra forma di Stato regionale, la scelta cooperativa – anche in un quadro costituzionale che ammette forme e condizioni particolari di autonomia regionale - trova una fondamentale e netta conferma nella sentenza n. 192/2024. La Corte dice infatti che «Il regionalismo italiano non è un “regionalismo duale”, in cui tra una regione e l’altra esistono delle paratie stagne a dividerle. Piuttosto, è un regionalismo cooperativo, che dà ampio risalto al principio di leale collaborazione tra lo Stato e le regioni e che deve concorrere alla attuazione dei principi costituzionali e dei diritti che su di essi si radicano». È in questa prospettiva, ed in coerenza con questo modello, quindi, che va interpretata «l’ineliminabile concorrenza e differenza tra regioni e territori»: essa «non può spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le regioni e tra regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale – che sono tratti caratterizzanti la forma di stato –, il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia».

Il passaggio appena riportato si trova nella prima parte del Considerato in diritto, dedicato dalla Corte all’interpretazione dell’art. 116, comma 3 Cost. all’esplicito fine di armonizzarlo al quadro complessivo della forma di Stato italiana ed a identificarne i presupposti e limiti di applicabilità, superati i quali, l’asimmetria si tradurrebbe in disgregazione (Buzzacchi, 2024).

Particolarmente significativo appare l’esplicito riferimento al regionalismo cooperativo come modello, evidentemente destinato a richiamare tutti i precedenti in cui lo stesso supremo Giudice vi ha fatto implicito o esplicito utilizzo applicando il principio di leale collaborazione per dirimere questioni di legittimità costituzionale e per imporre passaggi procedurali atti ad assicurare l’effettiva cooperazione tra i due grandi plessi ordinamentali in cui si articola il nostro Stato. Secondo la giurisprudenza della Corte, criterio tipico del regionalismo cooperativo è anzitutto quello che consente alle Regioni di far pesare i propri orientamenti e le proprie scelte nei procedimenti decisionali facenti capo allo Stato mediante il cd. metodo pattizio, nelle sue varie – e flessibili – modulazioni, a seconda del grado di incidenza della decisione sulla propria sfera di competenza e rispettivo ambito territoriale. Ne deriva la valorizzazione delle sedi permanenti di confronto tra esecutivi, indispensabili, secondo il consolidato indirizzo della Corte, ad assicurare questo costante raccordo, stante la perdurante assenza di una rappresentanza delle autonomie regionali nella sede parlamentare. Il regionalismo cooperativo è anche, sempre secondo la Corte, un modello che si fonda sulla necessaria presenza di meccanismi di perequazione interterritoriale in grado di assicurare una distribuzione equa delle risorse finanziarie, seguendo un’ottica solidaristica che presuppone il concorso di tutte le Regioni, nessuna esclusa, dal finanziamento del sistema; meccanismi che vanno, di conseguenza, concordati ed applicati secondo il metodo cooperativo, avvalendosi di sedi e strumenti adeguati allo scopo.

La Corte è ben consapevole che non tutti gli elementi di questo modello sono compiutamente presenti e funzionanti: in molte altre occasioni passate, infatti, ha sollecitato una riforma delle sedi e degli strumenti della leale collaborazione; e, sia pur implicitamente, anche nella pronuncia in esame essa parte dalla constatazione dell’assenza, nell’attuale – e prossimo futuro – quadro costituzionale e normativo, di disposizioni volte a garantire alle autonomie una adeguata valutazione collegiale dei profili di interesse comune derivanti dal processo di attuazione del regionalismo differenziato. Ne deriva, come si vedrà, una forte valorizzazione del ruolo di garanzia del Parlamento (Morrone, 2025).

Leale collaborazione e regionalismo differenziato: i limiti di applicabilità

Alla luce di queste premesse, è importante verificare quanto, alla luce dei contenuti della sentenza, il favor per il regionalismo cooperativo quale modello alla luce del quale interpretare l’art. 116, comma 3 Cost. sia poi stato applicato in sede di esame delle censure avanzate contro la legge n. 86/2024. Come era da attendersi, infatti, il principio di leale collaborazione nelle sue fondamentali, ed appena ricordate, componenti è stato invocato ripetutamente dalle Regioni ricorrenti, ed altrettanto numerose volte denunciata la sua presunta violazione, sia in generale che con riferimento a singole disposizioni normative, riguardanti sia il procedimento di adozione delle intese ed i relativi aspetti finanziari, sia la determinazione dei LEP e dei rispettivi costi e fabbisogni standard.

È stata dichiarata, anzitutto, non fondata la questione di legittimità costituzionale, promossa dalla Regione Toscana in riferimento al principio di leale collaborazione, dell’intera legge. Se il regionalismo differenziato è una delle possibili declinazioni previste in Costituzione dell’autonomia regionale, non può certo considerarsi di per sé contrario al principio di leale collaborazione: la questione si sposta, semmai, sulle modalità della sua attuazione, questa sì, necessariamente rispettosa del principio. Né è possibile ritenere contraria alla leale collaborazione la scelta del legislatore di dettare una disciplina legislativa di cornice, che, benché non necessaria, non appare tuttavia di per sé illegittima. Sul punto, il ragionamento della Corte è ineccepibile, perché compito della Corte è quello di risolvere le apparenti antinomie tra le norme costituzionali, renderle tra loro coerenti, non di riscrivere la Carta Costituzionale espungendo il regionalismo differenziato.

Ciò che appare, invece, meno coerente con il modello regionale cooperativo è il secondo passaggio argomentativo, secondo cui il principio di leale collaborazione non implica il necessario coinvolgimento del sistema regionale e locale nel suo complesso nella procedura di attuazione dell’art. 116, comma 3. Sono state infatti dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Regione Puglia in riferimento al principio di leale collaborazione, degli artt. 2, commi 4 e 8, 5 e 7, commi 1, 2 e 4, della legge, che, in tema di autonomia differenziata, disciplinano il ruolo della Conferenza unificata. La ricorrente – la quale reclamava un coinvolgimento della Conferenza unificata (o un coinvolgimento più intenso, nella forma dell’intesa, nei passaggi in cui è previsto), sul presupposto che l’autonomia differenziata, redistribuendo risorse e competenze, avrebbe effetti di carattere generale – non è stata accontentata: secondo la Corte, questa necessità non può ricondursi al principio di leale collaborazione, perché il parametro indicato prevede un procedimento di differenziazione bilaterale. Nella procedura di attuazione dell’art. 116, comma 3, in buona sostanza, ciò che conta è l’intesa con la Regione richiedente, alla quale sola il principio pattizio si applica nella forma più rigorosa della cd. intesa forte. Lo dimostra il fatto che, qualora le Camere intendano apportare modifiche sostanziali all’accordo concluso, esso dovrà essere rinegoziato tra il Governo e la regione richiedente, il cui perdurante consenso è - come ribadito proprio dalla sentenza - elemento essenziale della procedura. L’applicazione solo bilaterale del principio di leale collaborazione si estende anche alla consultazione degli enti locali, prevista testualmente dall’art. 116, ma da attuare, secondo il supremo Giudice, solo limitatamente agli enti locali della stessa regione, nelle forme da esse autonomamente stabilite, e non anche a quelli delle altre regioni. Esso si estende, infine, anche ai meccanismi di controllo sull’attuazione delle intese: quanto all’art. 7, comma 4, la funzione di controllo regolata dalla norma impugnata riguarda una singola regione “differenziata” e ha carattere puntuale e concreto; non si scorge, dunque, un particolare impatto sulle altre autonomie territoriali, tale da rendere costituzionalmente necessario il coinvolgimento della Conferenza unificata (o Stato-regioni); lo stesso dicasi per l’art. 8, comma 1, che affida il monitoraggio finanziario, per ciascuna intesa, alla rispettiva Commissione paritetica Stato-Regione-Autonomie locali, limitandosi a prevedere che essa sia integrata da un rappresentante dell’ANCI ed uno dell’UPI e che fornisca alla Conferenza unificata adeguata informativa sugli esiti del monitoraggio annuale relativo ai costi delle funzioni differenziate.

Certo, leggendo che secondo la Corte la consultazione delle altre regioni ed enti locali si tradurrebbe in un «aggravamento procedurale», non si può non rimanere delusi; ed altrettanta delusione si prova pensando che, da questa premessa maggiore, potrebbero considerarsi persino non necessari i - sia pur minimi - meccanismi di partecipazione previsti dalla legge 86/2024. Ci si riferisce alla previsione secondo la quale prima dell’avvio del negoziato, il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro per gli affari regionali e le autonomie da lui delegato devono informare la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano dell’atto di iniziativa (art. 2, comma 2), e soprattutto quella secondo cui lo schema di intesa preliminare deve essere immediatamente trasmesso alla Conferenza unificata, per l’espressione del parere (obbligatorio ma non vincolante: Cuttaia, 2024), da rendere entro sessanta giorni dalla data di trasmissione, decorsi i quali esso è comunque trasmesso alle Camere per la formulazione dei rispettivi indirizzi (art. 2, comma 4). Eppure, la scarsa trasparenza dei negoziati condotti tra il Governo e le Regioni firmatarie della cd. pre-intesa del 2018 aveva suscitato forti polemiche (Viesti, 2019), a cui solo a seguito della divulgazione da parte degli organi di stampa delle prime bozze di intesa il Dipartimento per gli affari regionali aveva posto parziale rimedio, pubblicando sul proprio sito – senza mai comunicare formalmente alcun atto alla Conferenza Unificata, né tantomeno chiedendo alcun parere – la sola parte generale (identica per tutte e tre le Regioni) degli schemi di intesa. Ci si sarebbe aspettato, pertanto, che la Corte valorizzasse queste due previsioni, considerato che il principio di leale collaborazione presuppone – a maggiore ragione in un procedimento, come questo, che non può non avere conseguenze sull’intero sistema regionale e locale – almeno la consultazione, ed in tempi adeguati, delle Regioni e degli enti locali intesi nel loro complesso, e quindi come sistema delle autonomie, in aggiunta e a prescindere dall’applicazione del metodo pattizio bilaterale alla singola intesa.

Date queste premesse, non c’è dunque da stupirsi che sia stata respinta anche l’osservazione riguardante il mancato coinvolgimento del sistema delle Conferenze nella fase parlamentare di formulazione degli indirizzi al Governo. È stata rigettata, in particolare, e senza particolare motivazione (Gardini, 2025), la questione di legittimità sollevata contro l’art. 2, comma 8 (che non richiede il coinvolgimento della Conferenza unificata), utilizzando il tradizionale argomento secondo cui al procedimento legislativo in senso stretto è inapplicabile il canone della leale collaborazione, se non nei casi specificamente previsti, oltre alla regola secondo cui la legge ordinaria non può regolare il procedimento legislativo, che rientra nella competenza della Costituzione e dei regolamenti parlamentari. In tal caso però, la Corte avrebbe potuto quantomeno formulare l’auspicio della consultazione in Parlamento dei rappresentanti delle autonomie, proprio per la particolare delicatezza e novità della procedura, anche facendo riferimento alla Commissione bicamerale per le questioni regionali ed alla circostanza della sua mancata integrazione con i rappresentanti delle autonomie, secondo le previsioni dell’art. 11 della l. cost. 3/2001. Evidentemente, ciò che si è voluto ribadire, al contrario, è che nella procedura ex art. 116, comma 3, «le istanze d’insieme sono affidate alle Camere con la speciale maggioranza (…) con esclusione di ulteriori aggravamenti procedurali per l’approvazione della legge rinforzata». È il Parlamento, quindi, che deve, in ultima istanza, farsi garante del regionalismo cooperativo; a tal fine, l’art, 116, comma 3 ha previsto una maggioranza rinforzata per l’approvazione dele relative intese; ed è compito del legislatore, dice la Corte, trovare le soluzioni che attuino la devoluzione ritenuta più adeguata, in grado di assicurare i vantaggi dell’autonomia territoriale senza pagare un prezzo elevato in termini di diseguaglianze. È per questo motivo, del resto, che, secondo la Corte, al Parlamento va riconosciuto il potere chiedere modifiche al testo dell’intesa (che, in tal modo, diventa preliminare), salvo, come si è detto, il necessario assenso alle modifiche stesse da parte della Regione interessata (e, s’intende, anche del Governo, controparte dell’intesa definitiva).

Il principio di leale collaborazione diviene così un limite sostanziale, più che procedurale, all’assunzione di decisioni che non rispettino l’equilibrio tra interesse della singola regione, ed interesse del sistema regionale e locale nel suo complesso. Le altre Regioni, benché escluse dal procedimento di approvazione, potranno sempre attivare in via successiva il sindacato della Corte, dal momento che «le leggi speciali di differenziazione incidono direttamente sul loro status costituzionale». L’argomentazione appare, di nuovo, un po’ deludente agli occhi di chi da anni lamenta la mancata riforma in senso federale del Parlamento, specie alla luce della fase di drammatica debolezza che lo stesso procedimento bicamerale sta attraversando, schiacciato ormai dalle questioni di fiducia e dai serrati tempi di una decretazione d’urgenza sempre più invasiva. Riuscirà, in altre parole, davvero il Parlamento a considerare le ragioni delle “Regioni terze”? o non rimarrà, piuttosto, ancora una volta schiacciato dalla volontà della maggioranza?

Leale collaborazione e determinazione dei LEP

Tra le disposizioni che la Corte ha considerato perno del regionalismo cooperativo vi è, coma già ricordato, l’art. 117, comma 2, lett. m) Cost., ovvero, la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, che, poiché devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, costituiscono un fondamentale presupposto per il riconoscimento di forme e condizioni particolari di autonomia; tanto che non è comunque possibile il conferimento di una funzione ai sensi dell’art. 116, terzo comma, Cost. senza previa determinazione dei relativi livelli essenziali da garantire, se questa attiene a un diritto civile o sociale, anche laddove rientri nelle materie per le quali il legislatore non ha previsto la preventiva determinazione dei LEP (cd. materie “non-LEP”). È stata la dottrina, in effetti, ad aver per prima ritenuto che, anche in mancanza di una espressa previsione da parte dell’art. 116 della Costituzione, la differenziazione sarebbe potuta avvenire solo a condizione di non incidere sulla garanzia dei LEP, pena la violazione dei fondamentali principi di unitarietà, solidarietà ed uguaglianza, veri e propri principi-guida del nostro modello di Stato regionale cooperativo; sempre la dottrina aveva più volte evidenziato, di conseguenza, l’assoluta esigenza di colmare i molti vuoti della legislazione in materia di LEP, prima di poter avviare – specie se a largo raggio – l’attuazione della clausola di cui al terzo comma dell’art. 116. Questa istanza era stata accolta nella prima proposta di legge “quadro” di attuazione dell’art. 116, comma 3 presentata nel 2021, al termine di un lungo iter che aveva coinvolto anche il sistema delle Conferenze, dall’allora Ministro per gli affari Regionali Francesco Boccia. Tale consapevolezza non si è, però, se non in minima parte, tradotta in atto nella legislazione degli anni seguenti, tanto che alle soglie dell’approvazione della legge n. 86/2024, il nuovo Governo ha ritenuto necessario – per “sbloccare” il processo di differenziazione – adottare una procedura straordinaria ed accelerata, incaricando una Commissione tecnica (“CLEP”) del compito di estrapolare dal quadro normativo vigente le norme poste a garanzia di LEP, e, soprattutto, di formulare proposte per la sua integrazione, al fine di potervi poi procedere con atti non legislativi (commi da 791 a 801-bis, art. 1 l. 197/2022).

L’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni è, tuttavia, un’operazione ad alto tasso di discrezionalità: è una scelta politica, infatti, quella di definire quali prestazioni siano essenziali, trattandosi di assicurarne poi l’effettivo godimento e, di conseguenza, la copertura finanziaria. Nell’esercizio di tale scelta politica, naturalmente, il legislatore ha dei punti di riferimento nella Costituzione, improntata all’incremento del benessere della società, all’eguaglianza sostanziale, alla tutela rafforzata di una serie di diritti, e così via; indicazioni che – tra l’altro – hanno consentito alla Corte di ribadire che scopo dei LEP è di assicurare, ove possibile, uno standard di tutela superiore al nucleo minimo del diritto. Per questo motivo, si tratta di una valutazione che non può essere affidata al solo Governo, anche per le importanti implicazioni di ordine finanziario: la Corte ha sancito inequivocabilmente che di queste prestazioni va assicurata l’esigibilità effettiva mediante la corrispondente e contestuale determinazione dei costi e fabbisogni standard, passaggio anch’esso essenziale in un’ottica di regionalismo solidale. È certamente positivo, pertanto, che la Corte abbia confermato che i LEP vanno disciplinati con fonte di rango legislativo: il che non esclude la possibilità di una delega legislativa, ma corredata di principi e criteri direttivi chiari, e soprattutto distinti da materia a materia, non essendo possibile una loro definizione omnicomprensiva e generalizzata, valevole per qualsiasi settore. Bene ha fatto, quindi, la Corte a ritenere, da un lato, del tutto insufficienti, quali criteri e principi direttivi, le generiche finalità indicate dal comma 791 della legge 197 del 2022, richiamato per relationem dall’art. 3, comma 1 della legge Calderoli, dall’altro, illegittima l’anomala procedura di determinazione dei LEP con DPCM, mantenuta in vita dalla citata legge, in concorrenza con la procedura per via di delega legislativa. Ciò ha comportato però l’assorbimento delle questioni relative alla lesione del principio di leale collaborazione, che le Regioni avevano invocato proprio in relazione alla procedura di adozione dei citati decreti legislativi e dei DPCM. Si è trattato di una occasione mancata per chiarire definitivamente quale livello di coinvolgimento delle autonomie sia necessario, considerata la forte incidenza che la materia “LEP” può avere – e generalmente ha sempre – su materie di competenza regionale. Quel che è certo è che, quanto ai livelli essenziali in materia di tutela della salute (cd. LEA), l’indirizzo della Corte si è assestato sulla necessità della previa intesa (addirittura “forte”, in questo caso); mentre qualche oscillazione (a favore di un più modesto parere) si è registrata in altri settori, come l’istruzione. Soprattutto, è sull’adozione di decreti legislativi comportanti una forte interferenza in materie di competenza regionale che la Corte, dopo aver sancito, con la sentenza n. 251/2016, l’obbligo della previa intesa, ha più volte mostrato qualche tentennamento. La determinazione dei LEP è senz’altro una questione che coinvolge l’intero sistema delle autonomie: una loro adeguata partecipazione è ineludibile, sia per impegnarle nella loro attuazione, sia per far poi valere la loro responsabilità in caso di inadempimento. Non sarebbe stato il caso di ribadire che la loro partecipazione è necessaria, anche alla luce della lettura restrittiva data all’esigenza di loro partecipazione “a valle”?. Un procedimento istruttorio ispirato al principio di leale collaborazione dovrebbe prevedere il coinvolgimento delle Regioni (e degli enti locali, per i LEP incidenti su loro funzioni fondamentali) sin dalla fase di stesura degli schemi, e non solo una loro valutazione successiva. Altrettanto lacunosa è la procedura prevista per la determinazione dei costi e fabbisogni standard: l’art. 3, comma 8 della l. 86/2024 si limita a prevedere DPCM adottati sulla base di ipotesi formulate dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard. Anche per l’adozione dei suddetti DPCM andrebbe ribadito l’obbligo della previa intesa e rafforzate le garanzie procedurali di un pieno ed effettivo coinvolgimento di Regioni ed enti locali nella stesura degli schemi, che il disegno di legge affida invece unilateralmente al Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie.

Oltre l’art. 116, comma 3: i nodi irrisolti del regionalismo cooperativo

La disamina dei profili della sentenza n. 192/2024 direttamente riferiti al principio di leale collaborazione, ha, come si è visto, rivelato più di un punto nel quale il meccanismo “bilaterale” dell’art. 116, comma 3 Cost. risulta, di fatto, alternativo al metodo collaborativo, per come sin qui predicato dalla stessa Corte Costituzionale, inteso quale confronto tra le tre fondamentali componenti del nostro sistema (Stato, Regioni, enti locali). Si dirà che, per come è stato interpretato l’art. 116, comma 3 Cost., la sua applicazione dovrebbe essere comunque tale da essere confinata a specifiche funzioni (prevalentemente amministrative?) suscettibili di devoluzione senza particolari effetti di sistema. Resta salva, inoltre, la portata delle affermazioni di principio che la stessa sentenza contiene, tutte orientate a respingere una visione duale e competitiva del nostro regionalismo, al di là, come si è detto, dei limiti entro i quali è concepibile una differenziazione formale di status tra regioni (che, si noti, è già previsto per le Regioni a statuto speciale: di qui l’inapplicabilità a queste ultime, secondo la Corte, del procedimento ed art. 116, comma 3). Ma, proprio perché tutta concentrata nell’individuazione dei limiti di applicazione del regionalismo differenziato, la sentenza lascia purtroppo scoperti alcuni nodi irrisolti del nostro modello di regionalismo cooperativo. Del primo, si è già detto: la relazione tra il Parlamento ed il sistema delle autonomie, del tutto priva di sedi e strumenti; il secondo è l’assenza di idonee sedi ed altrettanto idonei meccanismi per assicurare la perequazione finanziaria, considerata a giusta ragione dalla stessa Corte l’altro pilastro del regionalismo cooperativo.

In effetti, la legge delega 42/2009, ancor prima della riforma costituzionale del 2012, aveva previsto che le Regioni, le Città metropolitane, le Province e i Comuni concorressero, per il tramite della Conferenza per il coordinamento della finanza pubblica (art. 5), alla definizione degli obiettivi di finanza pubblica per comparto, anche in relazione ai livelli di pressione fiscale e di indebitamento. La stessa norma aveva previsto, inoltre, che la Conferenza proponesse criteri per il corretto utilizzo dei fondi perequativi; assicurasse la verifica periodica del funzionamento del nuovo ordinamento finanziario, delle relazioni finanziarie tra i livelli diversi di governo e l’adeguatezza delle rispettive risorse rispetto alle funzioni svolte, proponendo eventuali modifiche o adeguamenti. Importante era anche la previsione del necessario raccordo tra la Conferenza e il Parlamento: lo stesso articolo prevedeva, infatti, che le determinazioni della Conferenza fossero trasmesse alle Camere. Un ruolo così articolato, se correttamente valorizzato, avrebbe garantito il rispetto del principio di leale collaborazione nella predisposizione dei rispettivi documenti di bilancio, massimizzando efficacia e trasparenza nell’uso delle risorse pubbliche.

La sostanziale inattuazione di queste disposizioni è a tutti nota. Dal suo insediamento (2013) ad oggi, la citata Conferenza è sempre stata chiamata ad esprimere parere su DEF e manovre economiche già approvati dal Consiglio dei Ministri; né questa lacuna ha potuto essere colmata dalla Conferenza Unificata, anch’essa sacrificata nell’esercizio della sua funzione consultiva dagli attuali tempi e modi di predisposizione ed approvazione delle manovre finanziarie.

È soprattutto in relazione ai profili finanziari che il principio cooperativo viene più volte invocato dalla Corte nella sentenza, per affermare, in primo luogo, la doverosità del concorso anche delle regioni differenziate agli obiettivi di finanza pubblica, su un piano di parità rispetto alle altre regioni. È il Parlamento a doverne però garantire l’attuazione, nelle diverse fasi di attuazione della procedura: così è, ad esempio, per assicurare che l’eventuale costo dei conferimenti ex art. 116, terzo comma, Cost. non sia sostenuto dalle regioni terze, ma anche per la regolazione dei meccanismi di eventuale aggiustamento della misura delle compartecipazioni concesse alle Regioni differenziate, secondo principi di trasparenza ed equità, al fine di evitare la creazione di un «mosaico fiscale» difficile da governare (Gardini, 2024). Spetta infine al Parlamento la costituzione del fondo perequativo previsto dall’art. 15 del d.lgs. n. 68 del 2011, che la Corte definisce «improcrastinabile». Sul punto, la Corte è perentoria: «un ordinamento che intende attuare la punta avanzata del regionalismo differenziato non può permettersi di lasciare inattuato quel modello di federalismo fiscale “cooperativo”, disegnato dalla legge delega n. 42 del 2009 e dai suoi decreti attuativi». Per questo, «va ribadita con forza la necessità di dare compiuta attuazione all’intero disegno del federalismo fiscale, interrompendo una volta per tutte la prassi dei sistematici rinvii seguita sino ad oggi». La circostanza che la legge 86 si collochi già in questa prospettiva, prevedendo, come stabilito anche dalla specifica milestone del PNRR, il completamento del disegno del federalismo fiscale, attraverso, da un lato, la fiscalizzazione dei trasferimenti statali che ancora residuano nelle materie regionali, dall’altro, l’istituzione del fondo perequativo, evidentemente, ha convinto la Corte a non condizionare l’attuazione del federalismo asimmetrico al completamento dei meccanismi finanziari del cd. federalismo simmetrico. Non è stata dunque accolta l’opinione di chi aveva invece sostenuto la necessaria pregiudizialità della piena attuazione dell’art. 119 Cost. (Astrid, 2023), considerata condizione necessaria per il coordinamento complessivo della finanza pubblica e per assicurare un’adeguata uniformità delle prestazioni a livello nazionale (Rivosecchi, 2024), o quantomeno la sua contestualità (Pinelli, 2024), lasciando quindi il tema delle risorse in una cornice non irrilevante di incertezza (Buzzacchi, 2024).

C’è quindi da sperare che questa «storica» sentenza della Corte Costituzionale (Cheli, 2024) spinga finalmente le forze politiche, prima ancora di riformulare in termini nuovi la disciplina dello schema delle intese adottande, se non anche la parte procedurale della legge Calderoli oggi ancora in vigore (Bartole, 2025), a superare i nodi irrisolti del nostro regionalismo cooperativo, dando anzitutto ordinata attuazione al disegno di decentramento finanziario prefigurato dagli artt. 117, 118 e 119 Cost. (Gallo, 2025).

Non sembra, invece, che dalla sentenza possa ricavarsi una particolare spinta alla riforma del sistema delle Conferenze, il cui ruolo, piuttosto che valorizzato, sembra ridimensionato a favore di quello del Parlamento. Eppure, un intervento normativo sull’antiquato d.lgs. 281/1997 sarebbe davvero necessario sia per superare tutte le incertezze che derivano dal rinvio al legislatore di settore (così tanto foriero di contenzioso costituzionale) della scelta dell’intensità della collaborazione o della concertazione da applicare a ciascun procedimento decisionale statale che coinvolga le autonomie, sia per attribuire a queste ultime un ruolo nel procedimento di formazione della legge, salvaguardando, certo, le prerogative del Parlamento (Moschella, 2024), ma valorizzando il loro apporto conoscitivo in modo tale che possano far sentire la propria «voce» (Tubertini e Castelli, 2025). La prospettiva dell’attuazione del regionalismo differenziato – sottoposta a rigorose condizioni, ma resa comunque possibile dall’interpretazione adeguatrice della Corte – rafforza ancora di più questa necessità. Spiace notare che la Corte non lo abbia avvertito.

Riferimenti bibliografici

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Morrone A., Lo stato regionale dopo la sent. n. 192 del 2024, in Giustizia insieme (www.giustiziainsieme.it), 28 gennaio 2025

Rivosecchi G. (2024)., L’art. 119 cost. e le implicazioni finanziarie del regionalismo differenziato: la quadratura del cerchio, in Questa Rivista, p. 255 ss.

Tubertini C., Castelli L. (2025), Per un efficace sistema di raccordi tra Stato ed autonomie, in G. Amato, F. Bassanini, G. Macciotta (a cura di), Regioni sì, ma non così. Riflessioni e proposte in memoria di Valerio Onida, Bologna, Il Mulino, p. 403 ss.

G. Viesti (2019), Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari


Abstract: Il contributo verifica le implicazioni derivanti dal riferimento al modello del regionalismo cooperativo operato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 192/2024 al fine di interpretare i confini di applicabilità del cd. regionalismo differenziato ex art. 116, comma 3 Cost. Ne deriva un forte rafforzamento del ruolo del Parlamento, a discapito del cd. sistema delle Conferenze e dei tradizionali meccanismi di raccordo tra i livelli ordinamentali (Stato, Regioni ed enti locali) in cui si articola la Repubblica, messi in secondo piano dalla declinazione in senso bilaterale del principio di leale collaborazione.

Parole chiave: Regioni; autonomia differenziata; regionalismo cooperativo; leale cooperazione; perequazione.


Differentiated regionalism, cooperative regionalism and loyal cooperation in Constitutional Court Judgment No. 192/2024 by Claudia Tubertini

Abstract: The contribution verifies the implications deriving from the reference to the cooperative regionalism model made by the Constitutional Court in sentence no. 192/2024 in order to interpret the boundaries of applicability of the so-called differentiated regionalism pursuant to Article 116, paragraph 3 of the Constitution. The result is a strong strengthening of the role of Parliament, to the detriment of the so-called system of Conferences and of the traditional mechanisms of connection between the levels of the legal system (State, Regions and local authorities) into which the Republic is divided, which have been pushed into the background by the bilateral declination of the principle of loyal cooperation.

Keywords: Regions; differentiated autonomy; cooperative regionalism; loyal cooperation; equalisation