Professore ordinario di Diritto amministrativo e pubblico, Università degli Studi di Udine

Il regionalismo come processo dinamico e cooperativo*

Nella sentenza n. 192/2024[1] la Corte costituzionale, dopo aver ristrutturato e articolato le questioni di legittimità sottopostele dalle Regioni ricorrenti, coglie l’occasione per elaborare, all’inizio del “Considerato in diritto”, un’ampia premessa “di indirizzo” avente a oggetto l’interpretazione dell’art. 116, c. 3 Cost.

Trattasi di un’operazione che presenta una poliedrica utilità. La più immediata è quella relativa alla stesura della decisione, nell’ambito della quale tale premessa costituisce il quadro generale di riferimento nel quale sussumere poi, in sede di scrutinio, le diverse disposizioni impugnate e inferirne così la conformità o la difformità rispetto al parametro costituzionale. Ma vi è anche un’utilità non riflessiva, meno strettamente connessa alle tecnicalità redazionali della sentenza: delimitare in modo chiaro il tracciato lungo il quale il regionalismo italiano può svilupparsi, attraverso la sua collocazione nell’alveo dei principi caratterizzanti la forma di Stato. A quest’ultimo riguardo, la Corte pare voler riportare a raziocinio un dibattito che, a volte, sembrava aver perso di vista il naturale inquadramento costituzionale del regionalismo differenziato (o, rectius, asimmetrico), ritenuto da taluni addirittura una fattispecie in sé incostituzionale.

Il messaggio della Corte è chiaro ed è rivolto non solo allo Stato e alle Regioni, ma, in generale, all’opinione pubblica (la cui attenzione non a caso era stata attratta da un comunicato stampa della Corte di una inusitata lunghezza) e si dipana attraverso un apparato argomentativo che mette in evidenza come il modello italiano di regionalismo partecipi in realtà di alcune tendenze ampiamente riscontrabili nel panorama degli ordinamenti composti nello spazio giuridico europeo.

La prima tendenza riguarda il superamento della rigida e uniforme divisione delle attribuzioni verso una distribuzione di tipo flessibile. Il modello classico di riparto, uniforme e rigido, si è dimostrato da tempo inadeguato, per diverse ragioni: talune di ordine strutturale, derivanti dall’esigenza di considerare ab origine le peculiarità delle comunità territoriali che compongono la comunità nazionale e di fornire loro garanzie adeguate; altre di ordine congiunturale e connesse alle sempre più pressanti e mutevoli esigenze dello Stato sociale e al conseguente dilatarsi dei compiti dell’apparato pubblico, che richiedono una flessibilità idonea ad affrontare le sfide della complessità, caratteristica ormai connaturata alla dimensione sociale, del governo e delle istituzioni, anche in considerazione dei processi di integrazione sovranazionale. Da qui una fisiologica esigenza di differenziazione, che si è da tempo affermata tra gli ordinamenti decentrati (Palermo, Parolari, 2023; D’Ignazio, Russo, 2018; Palermo, Kössler, 2017; Palermo, Zwilling, 2009; Pernthaler, 1998). Il dato comparato, peraltro, consente non solo di apprezzare, in prospettiva diacronica, l’idea del federalismo/regionalismo come processo (Friedrich, 1968). Esso attesta altresì, con riferimento alle opzioni in concreto invalse, come l’unità di un ordinamento non implichi affatto, deterministicamente, l’uniformità e la rigidità della disciplina delle forme di decentramento territoriale del potere al suo interno e come le differenze non si riverberino necessariamente in una violazione del principio di eguaglianza ma, anzi, siano diretta conseguenza della sua declinazione in senso sostanziale, nella misura in cui – nella logica del pluralismo territoriale – ben può darsi che le differenti comunità esprimano diversi indirizzi e priorità rispetto all’azione dei pubblici poteri.

Ciò premesso, nella medesima prospettiva si colloca anche l’art. 116, c. 3 Cost[2]. che, lungi dal rappresentare una “patologia costituzionale”, secondo la Corte è la clausola che «consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano» in armonia con la forma di Stato delineata dalla Costituzione e che, nella logica costituzionale, è da leggersi dunque «non già [come] un fattore di disgregazione dell’unità nazionale e della coesione sociale, ma [come] uno strumento al servizio del bene comune della società e della tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali»[3].

Una seconda tendenza che si coglie nella sentenza muove dalla ripartizione delle materie alla ripartizione delle funzioni. Come noto, guardando al modello federale europeo, quello tedesco si caratterizza da sempre per le rilevanti deroghe alla tecnica del riparto per blocchi di materie, tipica del modello federale classico (specificamente, di matrice anglosassone), a causa soprattutto del fenomeno dell’amministrazione federale indiretta. Questa tendenza “dissociativa” risulta confermata anche in altri ordinamenti decentrati europei, non solo nel senso che la legislazione viene attratta ancora di più nella sfera centrale, mentre l’amministrazione in quella degli enti territoriali minori (Bin, Ferrari, 2023), ma anche nel senso che il riparto può essere ricostruito attraverso criteri che ritagliano funzioni all’interno di singoli ambiti materiali. Ciò può avvenire sulla base di disposizioni che si prestano a essere interpretate estensivamente o di clausole elastiche[4] o semplicemente in virtù della debolezza semantica e, quindi, giuridico-precettiva, delle etichette utilizzate per definire le materie. Si tratta di un profilo di convergenza tra gli ordinamenti composti piuttosto ricorrente, che rispecchia il pluralismo dello Stato costituzionale e che trova la sua ragione pratica nel bisogno di contemperare le esigenze unitarie con la già ricordata dilatazione dei compiti dello Stato sociale; ciò determina la necessità di una disarticolazione del potere pubblico sul territorio funzionale a servire al meglio gli interessi delle comunità (Carrozza, 2003). Tale tendenza rinviene la sua base giuridica, in ultima istanza, nel principio di sussidiarietà, la cui forza omologante non può stupire se si considera che si tratta – come ricorda la Corte – di «un principio fondamentale dello spazio costituzionale europeo… [che] orienta la ripartizione delle competenze legislative tra l’Unione e gli Stati membri… ed è altresì riconosciuto dal diritto costituzionale di alcuni Stati membri»[5]. Ma che, quand’anche non formalizzato in una puntuale disposizione, si può considerare uno dei pilastri teorici della ripartizione delle competenze e un fondamentale principio organizzativo di ogni ordinamento composto (Häberle, 1994).

Coerentemente con l’impostazione sinteticamente richiamata, anche nell’ordinamento italiano il principio di sussidiarietà[6] – scrive la Corte – «esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione», «attraverso un giudizio di adeguatezza, … [che] non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni [legislative e/o amministrative] e non può riguardare intere materie»[7]. Da qui, sul piano generale, la necessità che la richiesta regionale di trasferimento della funzione abbia una ragionevole giustificazione e sia supportata da un’adeguata istruttoria; sul piano delle disposizioni scrutinate, la caducazione di quelle che si riferivano al trasferimento di materie o ambiti di materie, anziché di specfiche funzioni, nonché di quella che non prevedeva che l’inziativa regionale di attuazione della differenziazione fosse giustificata in base al principio di sussidiarietà[8].

L’art. 116, c. 3 Cost. va dunque letto non nella classica prospettiva del riparto delle attribuzioni (specie legislative) che definisce o pretende di definire sia una fonte di produzione di norme primarie, sia – e con un certo grado di oggettività – l’intero ambito materiale di ciascuna fonte così individuata, ma come «una clausola generale di flessibilità che consente a ciascuna regione di chiedere di derogare all’ordine di ripartizione delle funzioni ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione»[9]. Tale clausola di flessibilità è espressione del principio di sussidiarietà e, proprio per questo, essa va intesa e attuata «ex parte populi»[10].

La terza tendenza che caratterizza gli Stati composti e che si coglie chiaramente nella sentenza è una conseguenza delle prime due sopra analizzate, ovvero la necessità che gli ordinamenti composti contemplino strumenti compensativi di cooperazione per accompagnare il meccanismo della sussidiarietà, consentendo ai governi decentrati di incidere sui processi decisionali centrali. In questa prospettiva il ruolo delle Camere rappresentative degli enti territoriali rimane un aspetto giuridico-costituzionale nevralgico e molto delicato nella teorica dei sistemi composti (Luther, Passaglia, Tarchi, 2006).

Nella sentenza n. 192 i riferimenti alla cooperazione sono molteplici e multiformi.

Innanzitutto nella “premessa” del Considerato in diritto[11], in cui la Corte chiarisce come la cooperazione (verticale e orizzontale) è la dimensione nella quale deve essere necessariamente calato il regionalismo italiano, al fine di presidiare i principi di solidarietà, di unità giuridica ed economica, di eguaglianza nel godimento dei diritti, di effettiva garanzia dei LEP, di coesione sociale e di unità nazionale, ovvero, in sintesi, i tratti caratterizzanti la forma di Stato italiana. Ulteriori riferimenti sono poi contenuti nella parte in cui la sentenza si diffonde sulle censure concernenti il principio di leale collaborazione, ritenendole infondate[12]. Nello sviluppo delle argomentazioni è interessante notare – per la parte che qui interessa – come la Corte metta in evidenza, nelle disposizioni impugnate, il corretto utilizzo dei moduli cooperativi, sia nella declinazione bilaterale («L’art. 116, terzo comma, Cost. costruisce il procedimento di differenziazione come un procedimento bilaterale»[13]), sia nella dimensione multilaterale, attraverso il coinvolgimento delle Conferenze («il legislatore ha scelto di prevedere comunque una partecipazione delle altre autonomie territoriali: la Conferenza Stato-regioni è informata fin dal principio della iniziativa di differenziazione… e la Conferenza unificata è chiamata ad esprimere un parere sullo schema di intesa preliminare…»[14]). Un ulteriore riferimento alla cooperazione si trova, infine, nella parte della sentenza riguardante i profili finanziari, laddove la Corte richiama l’esigenza di un «modello di federalismo fiscale ‘cooperativo’»[15].

In sintesi, dall’intera trama della sentenza si evince che la cooperazione non è solo meramente o astrattamente utile, ma è necessaria e imprescindibile per far funzionare concretamente l’intero impianto dello Stato regionale, compresa la clausola di flessibilità di cui all’art. 116, c. 3 Cost.

Naturalmente la Corte ragiona de iure condito e, quindi, sulla base degli schemi che governano il regionalismo cooperativo per come sinora inveratisi nel nostro ordinamento. Sul punto sono note le problematiche relative all’operatività del principio di leale collaborazione nel procedimento legislativo[16]; così come non si ignorano le criticità inerenti al sistema delle Conferenze in quanto inteso come mera garanzia procedimentale dell’autonomia territoriale (Carrozza, 1989), peraltro privo di base costituzionale e oggetto di una disciplina che ha contribuito a rendere tali organismi più apparati burocratico-amministrativi che sede di confronto e decisione sul piano politico (Dell’Atti, 2019; Caruso, 2021).

Appare tuttavia interessante l’enfasi comunque posta nella sentenza sul regionalismo cooperativo, per ciò che essa può sottendere nell’ottica del contributo della Corte al consolidamento del modello italiano di Stato composto, attraverso il messaggio che essa rivolge agli attori istituzionali. Nella decisione si coglie, infatti, innanzitutto una riaffermazione del rilievo costituzionale del principio cooperativo, che impone al legislatore statale di prevedere l’adozione di strumenti di raccordo e dunque il coinvolgimento delle Conferenze nelle ipotesi di interferenza tra ambiti di competenza[17]; in secondo luogo, un invito implicito ai protagonisti della cooperazione a interpretare i rispettivi ruoli non come meri adempimenti formali, ma utilizzando le sedi e gli strumenti a loro disposizione per approfondire la conoscenza reciproca, confrontarsi in modo autentico e condividere le scelte anche sul piano sostanziale[18].

Posto che l’art. 116, c. 3 Cost. va ricondotto alla logica costituzionale che poggia sui capisaldi della forma di Stato (innanzitutto, sui principi di solidarietà, eguaglianza, unità), la Corte analizza quindi, attraverso lo scrutinio delle disposizioni impugnate, come il regionalismo differenziato potrebbe concretizzarsi. Le riflessioni che seguono si concentrano, in particolare, su due moniti che la Corte rivolge a Stato e Regioni e che paiono contrappesi necessari per assicurare soluzioni asimmetriche conformi a Costituzione: garantire l’eguaglianza nel godimento dei diritti e il buon governo delle risorse pubbliche. Ciò significa, nella sistematica della sentenza, soffermarsi (2) sulle questioni riguardanti i LEP e relativi costi e fabbisogni standard e (3) sulle questioni in materia finanziaria connesse alle prime.

Un gruppo di questioni affrontate nella decisione in commento riguarda la legittimità dell’art. 3, c. 3 della l. n. 86/2024, che prevede che la determinazione dei LEP avvenga non in tutte le materie devolvibili ai sensi dell’art. 116, c. 3 Cost., ma solo in quelle ivi elencate[19], nonché la legittimità di altre disposizioni[20] che, secondo la prospettazione delle Regioni ricorrenti, subordinano il conferimento della maggiore autonomia alla mera determinazione dei LEP, senza richiedere la loro concreta garanzia.

La circostanza fornisce alla Corte l’occasione per ritornare sul tema dei LEP, mettendone meglio a fuoco (2.1) la natura, (2.2) la copertura finanziaria e il modo per valutarla, (2.3) l’intrinseca dinamicità.

2.1. Sulla necessità di determinare i LEP, oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m Cost., la giurisprudenza costituzionale si era già infatti soffermata per richiamare espressamente il legislatore statale a intervenire, superando un perdurante inadempimento che «rappresenta un ostacolo non solo alla piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali, ma anche al pieno superamento dei divari territoriali nel godimento delle prestazioni inerenti ai diritti sociali»[21].

La sottolineatura della Corte, ripresa sostanzialmente nella sentenza in commento, merita attenzione: in essa si comprende chiaramente come la necessità di determinare i LEP sia questione innanzitutto pertinente ai rapporti tra Stato-apparato e Stato-comunità, tra potere pubblico e individuo. Rispetto ad essa l’individuazione di quale sia il livello di governo chiamato a erogare la prestazione è un posterius, in quanto strumentale ad assicurare il livello stabilito (dallo Stato) a garanzia del diritto. In altri termini, i LEP vanno definiti innanzitutto come elementi qualificanti la forma di Stato sociale; i loro riflessi sulle dinamiche della forma di Stato regionale dipendono dall’ambito materiale e dalla funzione considerati, che individueranno il soggetto erogatore e garante della prestazione (lo Stato, la Regione o l’ente locale)[22].

In questa occasione, peraltro, la Corte si sofferma su un aspetto ulteriore e importante per definire con chiarezza la natura dei LEP e il loro rapporto con i vincoli di bilancio: la distinzione tra LEP e contenuto minimo dei diritti (Torretta, 2022; Antonini, 2021). Mentre quest’ultimo «è un limite derivante dalla Costituzione e va garantito da questa Corte, anche nei confronti della legge statale, a prescindere da considerazioni di ordine finanziario», poiché è «la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione»[23], invece «i LEP sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili, e rivolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione; la loro determinazione origina, poi, il dovere dello stesso Stato di garantirne il finanziamento»[24]. In altri termini, «i LEP rappresentano… il frutto di un bilanciamento, da operare tenendo conto delle risorse disponibili» e sono quindi il frutto della «discrezionalità politica del legislatore», da esercitarsi «secondo canoni di ragionevolezza»[25].

Ciò premesso e in considerazione della funzione che essi hanno, i LEP rappresentano «una “rete di protezione” che salvaguarda condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale» e, in questa prospettiva, costituiscono «il necessario contrappeso della differenziazione», con la conseguenza che «nel momento in cui il legislatore statale conferisce una maggiore autonomia a una determinata regione, con riferimento a una specifica funzione, che implica prestazioni concernenti diritti civili o sociali, [deve]… previamente determinare uno standard uniforme di godimento del relativo diritto in tutto il territorio nazionale», in ossequio ai principi di solidarietà, eguaglianza sostanziale e unità[26].

Così la Corte ricostruisce i limiti di sistema che vincolano la clausola di flessibilità del riparto delle competenze e fornisce un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione impugnata, “relativizzandone” il contenuto: «nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se, invece, lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-LEP” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)». Da qui il rigetto delle questioni sollevate dalle ricorrenti sull’art. 3, c. 3 l. n. 86/2024, in quanto infondate[27].

Quanto alle ulteriori censure sopra richiamate, esse vengono parimenti rigettate poiché le disposizioni impugnate non si limitano a proclamare LEP che resteranno “sulla carta”, ma dettano specifiche norme a garanzia, anche con riferimento alle Regioni terze[28], ponendo quindi le condizioni per rendere l’eguaglianza nel godimento dei diritti effettiva[29].

2.2. Nella sentenza si puntualizza inoltre che lo standard uniforme di godimento da assicurare su tutto il territorio nazionale va necessariamente accompagnato dall’individuazione del relativo costo standard, ovvero il costo attribuibile a una determinata prestazione, da erogare nelle migliori condizioni di efficienza e di appropriatezza. Partendo dal costo standard e dalle prestazioni da erogare si individua il fabbisogno standard, ovvero la reale necessità finanziaria di un ente in relazione a un determinato LEP (Longobardi, Porcelli, 2021; Porcelli, Vidoli, 2019).

D’altro canto, che vi sia un rapporto diretto tra il processo di definizione e finanziamento dei LEP e la determinazione dei costi e dei fabbisogni standard da riconoscere agli enti territoriali, era già chiaramente indicato dalla legge n. 42/2009 e dai d.lgs. n. 216/2010 e 68/2011 (Antonini, 2014; Poggi, 2009). Attraverso la definizione dei costi e dei fabbisogni standard, infatti, è possibile individuare l’impatto sulla finanza regionale (e locale) derivante dall’erogazione dei LEP; accertare l’adeguatezza delle risorse a disposizione degli enti territoriali per il relativo finanziamento; calibrare un’integrazione di tali risorse, ove insufficienti, mediante il fondo perequativo statale; consentire al legislatore di valutare se operare successive integrazioni delle stesse prestazioni da includere nel novero dei LEP. In proposito è opportuno ricordare che, in assenza di un’opera organica di determinazione dei LEP, la definizione dei fabbisogni standard si è finora basata sostanzialmente sui livelli storici di copertura dei servizi, senza necessariamente verificare se il livello storico risulti attualmente correttamente dimensionato rispetto a quanto richiesto per la tutela dei diritti civili e sociali. La definizione dei LEP e dei connessi costi e fabbisogni standard è finalizzata, invece, a superare il criterio della spesa storica che, riflettendo criteri di riparto di risorse non necessariamente tarate o aggiornate sulla base di valori effettivi di riferimento, può rivelarsi meno equo in un’ottica di garanzia uniforme dei diritti civili e sociali e di buon governo delle risorse pubbliche.

Ciò premesso, si comprende perché la Corte precisi innanzitutto che la copertura dei LEP sia da valutare, sia nell’ipotesi di vincolo di bilancio chiuso che nella prospettiva del reperimento di nuove risorse (coerentemente con gli obiettivi programmati di finanza pubblica e con gli equilibri di bilancio), «basandosi sui costi e fabbisogni standard», oltre che nel rispetto del principio di copertura finanziaria delle leggi[30]. Ma si comprende altresì perché aggiunga che anche per l’eventuale trasferimento delle funzioni non-LEP, per le quali la legge impugnata contempla il principio dell’invarianza finanziaria, il criterio da seguire per stimare l’entità del finanziamento non sia quello della spesa storica, ma quello del «costo depurato dalle inefficienze (come può essere il costo e fabbisogno standard, da applicare se la funzione attiene ad un LEP)». Dunque un richiamo chiaro a un parametro di «gestione efficiente», al fine di garantire la migliore allocazione delle funzioni secondo il principio di sussidiarietà.

Da rilevare che la Corte sviluppa la sua argomentazione sull’efficienza concentrandosi sul caso sottoposto alla sua attenzione e, quindi, sull’ipotesi di trasferimento di funzioni dallo Stato alla Regione, la quale dovrebbe garantire, se non addirittura un risparmio di spesa, perlomeno un’invarianza, posto che in capo allo Stato rimarranno comunque le funzioni necessarie a presidiare le istanze unitarie, quali quelle inerenti al monitoraggio delle funzioni trasferite e all’esercizio del potere sostitutivo nei casi previsti ai sensi dell’art. 120, co. 2 Cost. Tuttavia, sulla base di quanto la stessa Corte puntualizza rispetto al valore vincolante dei LEP per tutti gli apparati pubblici e dell’enfasi correttamente posta sul criterio della gestione efficiente – messo tra l’altro in connessione con la responsabilità politica –, sarebbe irragionevole ritenere che le conclusioni tratte non valgano su un piano più generale di quello relativo al caso scrutinato e non siano idonee ad essere applicate a tutti i livelli di governo. In altri termini, nella prospettiva del buon governo delle risorse pubbliche, un’autoanalisi sulla gestione efficiente deve essere compiuta non solo dalle Regioni, ma anche dallo Stato e dagli enti locali e le metodologie per il calcolo dei costi e dei fabbisogni standard possono essere un utile strumento al riguardo.

Sulla base delle considerazioni sopra riassunte, la Corte dichiara quindi l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 2 della l. 86/2024, innanzitutto poiché prevede che le compartecipazioni regionali al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale – ovvero la modalità di finanziamento delle funzioni trasferite dallo Stato alla Regione[31] – possano essere modificate in riferimento alla variazione dei fabbisogni di spesa tout court e non dei fabbisogni standard, in quanto «La previsione di una compartecipazione calibrata solo sul criterio della spesa storica si dimostra irragionevole e viola l’art. 97, secondo comma, Cost., dal momento che esso può cristallizzare anche la spesa derivante dall’eventuale inefficienza insita nella funzione come esercitata al momento dell’intesa». Inoltre tale disposizione viola altresì il principio di responsabilità del decisore pubblico, perché la previsione di un allineamento annuale delle aliquote di compartecipazione definite nelle intese[32] «determina un effetto di deresponsabilizzazione in ordine all’esercizio regionale delle funzioni trasferite: anche una gestione inefficiente delle stesse potrebbe, infatti, finire per essere sostanzialmente ripianata “a piè di lista” dallo Stato».

2.3. Quest’ultimo punto della sentenza[33], che dichiara illegittima la previsione di «una sorta di “paracadute” finanziario annuale», letto insieme al punto già trattato in cui si chiarisce la natura dei LEP[34], consente di svolgere un’ulteriore riflessione “a margine”, sul carattere dinamico dei LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard, in una duplice prospettiva.

La prima inerisce alla determinazione dei LEP in quanto scelta di carattere politico, che quindi può naturalmente variare in dipendenza dalle valutazioni discrezionali del legislatore statale nell’esercizio di una competenza esclusiva che è e resta generale e libera nei fini, sia pure nel rispetto delle prescrizioni costituzionali (tra le quali, innanzitutto, il principio di eguaglianza). Ne consegue che, una volta fissati, i LEP potranno fisiologicamente risentire degli adattamenti indotti da esigenze di contesto, naturalmente sempre tenendo presente la loro funzione di salvaguardia di condizioni di vita omogenee sul territorio nazionale e ferma restando la necessità della loro copertura finanziaria nei termini chiariti dalla Corte.

La seconda riguarda la necessaria collocazione dei LEP e della loro quantificazione in una visione evolutiva, che consideri con realismo i limiti e gli squilibri territoriali dell’azione di tutte le pubbliche amministrazioni, soprattutto nei risultati ottenuti e rispetto ai quali il perseguimento di un comune e generalizzato sistema di LEP a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini – garantito finanziariamente – rappresenta una condizione sicuramente necessaria ma non certo sufficiente. In questo senso la determinazione dei LEP non può essere intesa come esercizio generalizzato e pervasivo, che persegue un disegno complessivo di “ottimalità”, essenziale ma comunque prossima alle logiche della pianificazione, che fissano livelli di produzione e mezzi per soddisfarli dell’intera economia. Nello spirito della programmazione strategica, che invece è flessibile e si evolve seguendo i contesti mutevoli, l’elaborazione dei LEP va intesa come un percorso da sviluppare gradualmente[35], verificando di volta in volta i risultati raggiunti, avendo sempre e comunque chiari gli obiettivi di efficienza e di equità che si intendono conseguire per gli specifici ambiti dell’azione pubblica, nonché la concreta capacità amministrativa degli apparati deputati a realizzarli (Polverari, 2020; Galvan, 2025). Laddove un simile approccio è già stato utilizzato, i risultati ottenuti sono senz’altro positivi[36].

Quanto all’altra “faccia della medaglia” del LEP, ovvero i relativi costi e fabbisogni standard, sempre ragionando in termini di dinamicità funzionale a garantire l’effettività dei diritti e il buon governo delle risorse, si comprende come essi vadano necessariamente aggiornati, al fine di consentire che la stima del fabbisogno finanziario sia sempre aderente alle esigenze reali e consenta al legislatore di effettuare quelle valutazioni di impatto della spesa, di adeguatezza della provvista, di ponderazione perequativa e, se del caso, di modifica del LEP, di cui si è detto[37]. La Corte in proposito conferma tale necessità, specificamente prevista dall’art. 3, c. 8 l. n. 86/2024 nella parte in cui prevede che i costi e i fabbisogni standard siano determinati e aggiornati con cadenza almeno triennale con uno o più d.P.C.M.

In quest’ottica, il binomio LEP-costi e fabbisogni standard non è altro che una delle epifanie della necessità di configurare processi di normazione che, con varia intensità, integrino il parametro tecnico come supporto conoscitivo e/o valutativo nell’iter di formazione del diritto politico, con un output che è comunque integralmente riconducibile alle scelte discrezionali del legislatore. Tale necessità deriva dall’esigenza di adeguare i processi decisionali alle esigenze di normazione che provengono da una realtà sempre più complessa e che richiede il superamento di una costruzione delle politiche pubbliche e, quindi, degli atti di normazione, fondata esclusivamente sulle opzioni ideologiche o sulle pressioni politiche contingenti, per privilegiare o, comunque, valorizzare, un approccio tecnico alle scelte di legislazione (e di governo e di amministrazione), in grado di ricondurle ad una metodologia scientifica, fondandole su dati misurabili e – per quanto possibile – verificabili (Carrozza, 2016; D’Orlando, 2022 e 2021)[38]. In sintesi, trattasi di uno dei modi attraverso i quali adeguare il sistema delle fonti alle sfide della complessità, mantenendo la centralità del diritto politico (e, quindi, del principio di legalità) in quanto espressione del circuito democratico-rappresentativo.

Autonomia finanziaria e responsabilità: l’ineludibile attuazione del federalismo fiscale

Connesso alla copertura finanziaria dei fabbisogni standard è, infine, il punto 23 della decisione, nel quale si affrontano una serie di questioni aventi a oggetto il meccanismo di finanziamento del regionalismo asimmetrico, che si basa su compartecipazioni regionali al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale, nel rispetto del principio di copertura finanziaria delle leggi (art. 17 l. 196/2009) e del principio di corrispondenza tra risorse e funzioni (art. 119, c. 4 Cost.)[39]. Tale meccanismo è censurato dalle ricorrenti, anche alla luce delle clausole finanziarie contenute nella legge impugnata e che prevedono l’invarianza finanziaria della differenziazione sia in senso assoluto che rispetto alle Regioni che non vi accedono, nonché la garanzia del finanziamento dei LEP sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard nel rispetto principio di copertura delle leggi e degli equilibri di bilancio[40].

La Corte dichiara l’infondatezza di tutte le questioni sollevate. Esaurito lo scrutinio, però, rivolge al legislatore un monito piuttosto perentorio e che riguarda la necessità di realizzare il federalismo fiscale. Come noto, trattasi di un percorso di attuazione del dettato costituzionale che avrebbe dovuto svilupparsi, a cascata, dalla l. n. 42/2009 e che a oggi risulta compiuto in modo parziale per una molteplicità di ragioni, sulle quale non è possibile diffondersi in questa sede. D’altro canto, la stessa Corte è intervenuta ripetutamente in passato sul punto, dapprima con una giurisprudenza più attenta nei confronti dell’autonomia finanziaria regionale, quindi, specie a seguito della crisi economico-finanziaria, con una maggiore attenzione ad altri elementi da considerare nelle diverse fattispecie di bilanciamento, valorizzando la funzione statale di coordinamento della finanza pubblica (Gallo, 2017; D’Orlando, 2019).

La questione è dunque notoriamente risalente e irrisolta, ma la Corte ritorna sull’argomento con un richiamo che suona particolarmente imperioso[41], per due ordini di motivi. Innanzitutto perché vi è stato un principio di attuazione dell’art. 116, c. 3 Cost. (la l. n. 86/2024), che giocoforza obbliga a riflettere sul punto. Ma c’è una ragione ulteriore, che deriva dagli impegni contratti dall’Italia con l’Unione europea, che alla Corte non sfuggono e che, peraltro, non sfuggono nemmeno al legislatore[42]: il riferimento è alla specifica milestone del PNRR relativa alla Riforma del quadro fiscale subnazionale (Missione 1, Componente 1, Riforma 1.14), che contempla il completamento del federalismo fiscale di cui alla l. n. 42/2009 a decorrere dal gennaio 2027, con l’obiettivo di migliorare la trasparenza delle relazioni fiscali tra i diversi livelli di governo, assegnare le risorse alle amministrazioni subnazionali sulla base di criteri oggettivi e incentivare un uso efficiente delle risorse medesime.

Per la parte che qui interessa[43], la milestone M1C1-119 è articolata in tre interim steps:

  • (i) aggiornamento della normativa vigente, con conseguente individuazione delle fonti di finanziamento regionale, in conformità all’art. 119 Cost.;
  • (ii) fiscalizzazione dei trasferimenti erariali nelle materie di competenza regionale;
  • (iii) determinazione dei LEP e relativi costi e fabbisogni standard nelle materie già di competenza regionale (assistenza, istruzione, trasporto pubblico locale per la spesa in conto capitale: art. 13 d.lgs. n. 68/2011).

Al secondo step la Corte rivolge la sua specifica attenzione, poiché esso costituisce, nella prospettiva dell’art. 119 Cost., una premessa fondamentale per la concreta operatività del fondo perequativo previsto dall’art. 15 d.lgs. n. 68/2011, che consente di realizzare un «modello di federalismo fiscale ‘cooperativo’», indispensabile per «attuare la punta avanzata del regionalismo differenziato».

In proposito, si ricorda brevemente che, in attuazione dell’art. 119 Cost., l’art. 8 l. n. 42/2009 dispone la soppressione dei trasferimenti statali diretti al finanziamento delle spese connesse a materie di competenza legislativa regionale concorrente e residuale, nonché delle spese relative a materie di competenza esclusiva statale in relazione alle quali le Regioni esercitano competenze amministrative. Lo stesso articolo specifica che le spese riconducibili a materie soggette al vincolo di cui all’art. 117, c. 2, lett. m Cost. vanno determinate nel rispetto dei costi standard associati ai LEP[44]. L’art. 10, c. 1 l. n. 42/2009 prevede che, quanto al finanziamento delle funzioni regionali nelle materie di competenza legislativa regionale concorrente e residuale, siano cancellati i relativi stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato; siano ridotte le aliquote dei tributi erariali e siano corrispondentemente aumentati taluni tributi regionali e talune aliquote delle compartecipazioni regionali.

Sul tema della fiscalizzazione la giurisprudenza costituzionale è stata caratterizzata, in una prima fase, da una maggiore intransigenza rispetto ai ritardi nell’adeguamento delle discipline di settore al novellato Titolo V, parte II, della Costituzione e ha dichiarato l’incostituzionalità delle disposizioni che prevedevano la permanenza dei fondi statali in materie di competenza regionale, non potendo ammettersi «interventi finanziari diretti dello Stato a favore dei Comuni, vincolati nella destinazione, per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi, fuori dall’ambito dell’attuazione di discipline dettate dalla legge statale nelle materie di propria competenza, o della disciplina degli speciali interventi finanziari… ai sensi del nuovo articolo 119, quinto comma. Soprattutto non sono ammissibili siffatte forme di intervento nell’ambito di materie e funzioni la cui disciplina spetta invece alla legge regionale, pur eventualmente nel rispetto (quanto alle competenze concorrenti) dei principi fondamentali della legge dello Stato… Ove non fossero osservati tali limiti e criteri, il ricorso a finanziamenti ad hoc rischierebbe di divenire uno strumento indiretto ma pervasivo di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni degli enti locali, e di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza»[45]. Da rilevare che, in questa fase, la Corte sottolinea la natura “a maglie larghe” dell’art. 119 Cost., che richiede certo l’intervento del legislatore statale per la sua compiuta attuazione, ma evidenzia altresì la sua attitudine immediatamente precettiva, poiché esso pone sin da subito «precisi limiti al legislatore statale nella disciplina delle modalità di finanziamento delle funzioni spettanti al sistema delle autonomie»[46].

Successivamente la giurisprudenza costituzionale ha invece assunto un atteggiamento più “morbido”, costruendo un test di costituzionalità attraverso l’indicazione delle condizioni in presenza delle quali è possibile mantenere eventuali trasferimenti statali in materie di competenza regionale. Innanzitutto deve trattarsi di fondi necessari ad assicurare livelli di omogeneità nel godimento dei diritti e nella fruizione di servizi sul territorio nazionale: «il mancato completamento della transizione ai costi e fabbisogni standard, funzionale ad assicurare gli obiettivi di servizio e il sistema di perequazione, non consente, a tutt’oggi, l’integrale applicazione degli strumenti di finanziamento delle funzioni regionali previsti dall’art. 119 Cost.»; «nella sottolineata perdurante inattuazione della legge n. 42 del 2009, che non può non tradursi in incompiuta attuazione dell’art. 119 Cost., l’intervento dello Stato [è] ammissibile nei casi in cui, come quello di specie, esso risponda all’esigenza di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti tutelati dalla Costituzione stessa»[47]. In secondo luogo, è necessario il coinvolgimento delle Regioni: poiché i trasferimenti statali a carattere vincolato che intervengono in materie concorrenti o residuali regionali determinano un’illegittima «sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza», lo Stato deve disporre «trasferimenti senza vincoli di destinazione specifica, o, se del caso, passando attraverso il filtro dei programmi regionali, coinvolgendo dunque le Regioni interessate nei processi decisionali concernenti il riparto»[48]. Tali condizioni legittimano la permanenza dei trasferimenti statali, ma «come portato temporaneo della perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. e di imperiose necessità sociali»[49].

Attualmente i fondi statali potenzialmente passibili di fiscalizzazione, sulla base delle indicazioni contenute nell’art. 7 d.lgs. n. 68/2011, sono stati “mappati”[50]. Previe opportune valutazioni di carattere politico, si dovrà ora procedere all’individuazione di quali in concreto fiscalizzare con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, sentita la Conferenza unificata[51] e previo parere delle Commissioni parlamentari competenti per i profili di carattere finanziario.

Si comprende, peraltro, come il primo e il terzo step sopra richiamati siano strettamente connessi alla realizzazione del secondo: l’esercizio della delega fiscale dovrà essere finalizzato a garantire al complesso delle Regioni a statuto ordinario entrate corrispondenti all’ammontare dei trasferimenti statali soppressi, previsti a legislazione vigente, attraverso la rideterminazione dell’addizionale regionale all’IRPEF[52] oppure ricorrendo a fonti di finanziamento alternative[53]; una volta soppressi i trasferimenti statali con vincolo di destinazione, la determinazione dei LEP e dei connessi costi e fabbisogni standard costituirà il limite condizionante i margini di scelta degli enti territoriali in relazione alla destinazione delle risorse a loro disposizione.

Il faticoso percorso di attuazione del federalismo fiscale pare dunque essersi rimesso in moto e, in questa prospettiva, il monito della Corte è uno sprone a perseverare (D’Orlando, Porcelli, 2025)[54].

Impegni europei e regionalismo differenziato: un’occasione di riflessione e di progresso sul percorso di una piena attuazione dei valori costituzionali

In relazione agli aspetti sui quali si sono concentrate le considerazioni che precedono, la sentenza in commento consente dunque non solo una valutazione del regionalismo italiano hic et nunc, ma anche una riflessione di carattere sistematico e prospettico, che ha come fulcro il richiamo a riprendere il percorso di attuazione del dettato costituzionale per conseguire due obiettivi che se, da un lato, sono una condizione necessaria per l’attuazione dell’art. 116, c. 3 Cost., dall’altro la trascendono, perché si identificano nelle condizioni minime per il mantenimento di una reale unità nazionale: la garanzia dell’eguaglianza nel godimento dei diritti e il buon governo delle risorse pubbliche.

Tali obiettivi possono essere effettivamente conseguiti solo se tutti i livelli di governo coinvolti acquisiscono una consapevolezza di ruolo nuova, che va collocata nel quadro di un regionalismo cooperativo effettivo. In tale quadro è lo Stato innanzitutto chiamato ad agire, governando l’utilizzo delle risorse pubbliche con modalità diverse da quelle sinora invalse, largamente basate sul ricorso a trasferimenti statali con vincolo di destinazione: la sovrapposizione di politiche e indirizzi governati centralmente a quelli derivanti dall’autonomia di spesa degli enti sub-statali, viola le previsioni costituzionali, deresponsabilizza gli enti beneficiari e, non da ultimo, è stata nei fatti incapace di garantire l’adeguata e generalizzata tutela dei diritti fondamentali. Occorre parallelamente creare, inoltre, quel vero tessuto connettivo nazionale che sono i LEP, da costruire da parte del decisore politico centrale attraverso un rigoroso percorso di definizione delle prestazioni, di determinazione dei relativi costi e fabbisogni standard, di sostenibilità finanziaria complessiva e di corrispondente assunzione di responsabilità politica. In questo modo si orienta correttamente la spesa pubblica e, in particolare, quella degli enti territoriali; una spesa sostenuta primariamente e ordinariamente da tributi ed entrate propri e da compartecipazioni, non più da trasferimenti vincolati e supportata da adeguati meccanismi perequativi. Infine è necessario approntare, sempre da parte del decisore politico centrale, dei presidi a garanzia dei LEP, attraverso un adeguato monitoraggio sulle modalità di allocazione delle risorse e sull’effettivo conseguimento degli obiettivi, se del caso attivando meccanismi sanzionatori e poteri sostitutivi.

Il quadro descritto definisce, conseguentemente, il ruolo delle Regioni (e degli enti locali). Per questo la Corte le ammonisce sulla necessità che l’autonomia differenziata sia un’autonomia “ponderata” (Toniatti, 2017), ovvero frutto di assunzione e dimostrazione di responsabilità, politica, amministrativa, finanziaria, da ricondurre non a una logica di potere, ma di miglior servizio all’attuazione dei valori costituzionali[55], da valutare anche nella prospettiva dell’integrazione sovranazionale[56].

Restano cruciali quindi, sullo sfondo, i temi sollecitati sia dal PNRR sia dall’attuazione dell’art. 116, c. 3 Cost.: la determinazione dei LEP e la realizzazione del federalismo fiscale. Ovvero la costruzione di un sistema di relazioni tra Stato ed enti territoriali in grado di garantire «una “rete di protezione”» che salvaguardi condizioni di vita omogenee su tutto il territorio nazionale, valorizzando la responsabilizzazione attraverso un soppesato ampliamento dell’autonomia finanziaria di Regioni ed enti locali, accompagnato da una razionalizzazione della spesa pubblica basata su costi e fabbisogni standard e dall’attivazione di meccanismi per perequare le differenze tra fabbisogni standard e capacità fiscali.

Ciò significa creare l’infrastruttura portante di un regionalismo cooperativo e solidale che può far progredire l’intero Paese in una logica di unità, dando così piena e coerente attuazione al dettato costituzionale.

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NdA

* Il contributo riprende gli interventi svolti dall’Autrice nel corso di due seminari: Il regionalismo dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2024, organizzato a Bologna dalla rivista Istituzioni del Federalismo il 17 febbraio 2025; Quale futuro per l’autonomia differenziata?, organizzato a Roma dalla rivista Federalismi.it e dell’ISSIRFA il 28 febbraio 2025.

[1] Che ha definito il giudizio di legittimità costituzionale, attivato su ricorso di quattro Regioni, su alcune disposizioni della l. n. 86/2024 «Disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario ai sensi dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione».

[2] E, sebbene per ragioni diverse, l’art. 116, c. 1 Cost., che riguarda le autonomie speciali.

[3] Punto 4 Cons. dir.

[4] Come per esempio, nel caso italiano, le competenze finalistiche e l’attrazione in sussidiarietà per ciò che concerne il riparto della potestà legislativa, il principio di sussidiarietà per quanto riguarda l’allocazione delle funzioni amministrative (D’Atena, 2022).

[5] Punto 4.1 Cons. dir.

[6] Che, come noto, ha un riconoscimento testuale negli artt. 118, c. 1 e 120, c. 2 Cost. ed è stato esteso alla funzione legislativa, a opera della giurisprudenza, tramite l’istituto della “chiamata in sussidiarietà” (sent. n. 303/2003 e n. 6/2004).

[7] Punto 4.1 Cons. dir.

[8] Artt. 1 c. 2, 2 c. 1-2, 3 c. 3, 4 c. 1 e art. 2, c. 1: punto 8.4 Cons. dir.

[9] Punto 4.3 Cons. dir.

[10] Punto 4.1 Cons. dir.

[11] Punto 4 Cons. dir.

[12] Punto 17 Cons. dir. Sulla relazione tra moduli cooperativi e principio di leale collaborazione v., ex multis, Corte costituzionale, sent. n. 31/2006.

[13] Punto 17.2 poi ripreso nel 21 Cons. dir.

[14] Punto 17.2 poi ripreso nel 18 Cons. dir.

[15] Punto 23.3 Cons. dir., su cui v. infra, sub 3.

[16] Negata peraltro dalla Corte anche nella sentenza in commento: punti 17.1 e 18 Cons. dir. Sul tema si rammenta il discusso precedente della sent. n. 251/2016.

[17] Che può dipendere da varie circostanze, quali la necessità di considerare oggetti a imputazione materiale multipla, competenze finalistiche, ipotesi di attrazione in sussidiarietà. Da rilevare che, proprio tra le competenze finalistiche, rientra la determinazione dei LEP, con la conseguenza che lo Stato non può procedere unilateralmente ma, salvo casi eccezionali, con la collaborazione delle Regioni (D’Atena, 2022).

[18] Riprendendo in proposito il monito già più volte formulato dalla Corte costituzionale come, per esempio, nella sent. n. 217/2020.

[19] Risultando così escluse le seguenti materie: «previdenza complementare e integrativa», «professioni», «organizzazione della giustizia di pace», «rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni», «commercio con l’estero», «protezione civile», «coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», «casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale», «enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale».

[20] Artt. 1 c. 2, 2 c. 1, 3, 4 c. 1-2, 9 c. 2 l. n. 86/2024.

[21] Sent. n. 220/2021, punto 5.1 Cons. dir.

[22] In tal senso si ricorda altresì l’art. 13, c. 2 d.lgs. n. 68/2011, ove si stabilisce che «I livelli essenziali delle prestazioni sono stabiliti prendendo a riferimento macroaree di intervento… ciascuna delle quali omogenea al proprio interno per tipologia di servizi offerti, indipendentemente dal livello di governo erogatore».

[23] Come già chiarito dalla Corte nelle sent. n. 275/2016, n. 152/2020, n. 309/1999.

[24] Punto 14 Cons. dir.

[25] Con richiamo alla sent. n. 169/2017.

[26] Punto 14.1 Cons. dir.

[27] Punto 15 Cons. dir.

[28] La Corte sottolinea, peraltro, che il principio di solidarietà si applica anche nei rapporti tra enti e non solo tra individui: sent. n. 335/1994. In questa prospettiva, si ricorda altresì la declaratoria di incostituzionalità che ha colpito – per violazione dell’art. 2 Cost., ma anche degli artt. 3, 5, 97 c. 1 e 119 c. 1 Cost. – l’art. 9 c. 4 l. n. 86/2024, il quale prevedeva la mera facoltà e non l’obbligo delle Regioni differenziate di concorrere agli obiettivi di finanza pubblica: punto 28 Cons. dir.

[29] La Corte richiama in proposito gli artt. 1 c. 2, 4 c. 1, 9 c. 3 l. n. 86/2024.

[30] Punto 22.1 Cons. dir.

[31] Come stabilito dall’art. 5 c. 2 l. 86/2024.

[32] Aliquote che peraltro, stigmatizza la Corte, non possono che essere previste (e, quindi, modificate) dalle leggi rinforzate che approvano le intese e non da un mero decreto interministeriale: punto 22.3 Cons. dir.

[33] Punto 22 Cons. dir.

[34] Punto 14 Cons. dir.

[35] Come peraltro già previsto dall’art. 13, c. 3 d.lgs. 68/2011, laddove chiaramente si indica la necessità di un «percorso di convergenza» verso i LEP attraverso la fissazione di obiettivi progressivi intermedi (c.d. obiettivi di servizio).

[36] Il riferimento è al processo di convergenza verso i LEP del comparto comunale relativi ai servizi sociali, agli asili nido e al trasporto degli studenti con disabilità, in corso di realizzazione attraverso obiettivi di servizio incrementali e monitorati annualmente, finanziati attraverso il Fondo speciale per l’equità del livello dei servizi, istituito dall’art. 1, c. 496 l. n. 213/2023 quale fondo ex art. 119, c. 5 Cost., a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 71/2023. Sul punto, per sinteticità, si rinvia all’Audizione sullo stato di attuazione e sulle prospettive del federalismo fiscale, della Presidente della Commissione tecnica per i fabbisogni standard, d.d. 8 maggio 2024, ove si dà parimenti conto dell’effetto positivo, in termini di riequilibrio delle diseguaglianze, prodotto dal progressivo riparto di una quota rilevante del Fondo di solidarietà comunale sulla base non più della spesa storica, ma della differenza tra fabbisogni standard e capacità fiscali. Il documento è reperibile all’indirizzo https://www.mef.gov.it/ministero/commissioni/ctfs/index.html, ove sono peraltro pubblicate anche le Audizioni dei Presidenti degli ultimi anni e tutti i provvedimenti adottati dalla Commissione, attraverso i quali si può acquisire contezza dello sviluppo della metodologia di calcolo dei costi e dei fabbisogni standard relativi agli enti locali.

[37] Sub 2.2.

[38] Trattasi del fenomeno del c.d. Evidence-Based Policy/Rule-Making.

[39] Art. 5, c. 2 l. n. 86/2024.

[40] Art. 9, c. 1-3 l. n. 86/2024.

[41] «Questa Corte sottolinea dunque con forza la necessità di dare compiuta attuazione al descritto disegno nei termini previsti dalla richiamata milestone, interrompendo quindi una volta per tutte la prassi dei sistematici rinvii seguita sino ad oggi»: punto 23.3 Cons. dir.

[42] V. art. 10, c. 2 l. n. 86/2024.

[43] Il federalismo fiscale riguarda naturalmente anche gli enti locali, che restano però al di fuori del perimetro delle presenti riflessioni, in quanto incentrate sulla sentenza in commento.

[44] Tali materie sono quelle individuate dall’art. 13 d.lgs. n. 68/2011 cit.

[45] Sent. n. 16/2004.

[46] Sent. n. 423/2004.

[47] Sent. n. 273/2013 e, più di recente, sent. n. 74/2019.

[48] V. già sent. n. 16/2004 e n. 423/2004, nonché, più di recente, sent. n. 40/2022.

[49] Sent. 273/2013 cit.

[50] Si rinvia al parere reso dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard in data 11 dicembre 2023 e reperibile all’indirizzo https://www.mef.gov.it/ministero/commissioni/ctfs/index.html. Si ricorda che l’art. 7 cit. prevede la soppressione dei trasferimenti dallo Stato alle Regioni a statuto ordinario con specifico riferimento ai trasferimenti statali di parte corrente e, ove non finanziati tramite il ricorso all’indebitamento, in conto capitale, aventi carattere di generalità e permanenza e destinati all’esercizio delle competenze regionali, ivi compresi quelli finalizzati all’esercizio di funzioni da parte di Province e Comuni.

[51] Da ricordare che la fiscalizzazione può riguardare anche risorse destinate a finanziare funzioni fondamentali degli enti locali, che andranno adeguatamente garantite all’atto di definire il quomodo della fiscalizzazione.

[52] Attuale previsione di cui all’art. 2 d.lgs. n. 68/2011.

[53] Art. 13, c. 1, lett. a, n. 1 l. n. 111/2023.

[54] Monito peraltro ripreso anche nelle sent. n. 194/2024 e n. 45/2025, in cui la Corte stigmatizza il fatto che lo Stato continui a generare un sistema di finanza territoriale derivata, alimentata da fondi vincolati, «così allontanandosi dal modello di autonomia finanziaria delineato dall’art. 119 Cost., la cui attuazione è stata ripetutamente sollecitata dalla Corte stessa».

[55] Punto 4.1 Cons. dir.

[56] Punto 4.4 Cons. dir.


The (regional) state as integration. Asymmetries and counterbalances

Elena D’Orlando

Abstract: Nella sentenza n. 192/2024 la Corte costituzionale coglie l’occasione per tracciare il percorso sul quale il regionalismo italiano può svilupparsi, nel quadro dei principi che definiscono la forma di Stato, quali innanzitutto i principi di solidarietà, di eguaglianza e di unità. Un regionalismo cooperativo che deve poggiare, in particolare, sull’eguaglianza nel godimento dei diritti e sul buon governo delle risorse pubbliche; nel quale la ripartizione delle competenze non va ricondotta a una logica di potere, ma di miglior servizio all’attuazione dei valori costituzionali; che evolve sulla base di una assunzione di responsabilità politica, amministrativa, finanziaria, da parte di tutti gli attori istituzionali coinvolti.

Abstract: In the judgment nr 192/2024 the Constitutional Court takes the opportunity to trace the path on which Italian regionalism can develop, within the framework of the principles that define the form of State, such as first and foremost the principles of solidarity, equality and unity. A cooperative regionalism that must be based, in particular, on equality in the enjoyment of rights and on the good governance of public resources; in which the distribution of competences is not to be traced back to a logic of power, but of better service to the implementation of constitutional values; that evolves on the basis of an assumption of political, administrative and financial responsibility on the part of all the institutional actors involved.

Parole chiave: Stato regionale; differenziazione; cooperazione; livelli essenziali delle prestazioni; costi e fabbisogni standard; federalismo fiscale

Keywords: regional State; differentiation; cooperation; essential levels of services; standard costs and expenditure needs; fiscal federalism