Il regionalismo differenziato dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 192 del 2024 / Andrea Giovanardi
Numero 1 2025 • ANNO XLVI
Professore ordinario di Diritto tributario, Università degli Studi di Trento
Considerazioni di contesto: la decisione della Corte costituzionale sulla legge Calderoli quale momento conclusivo di un furioso scontro politico-istituzionale
La vicenda dell’autonomia differenziata, in qualsiasi modo finisca, è una di quelle che lasciano il segno nella storia di un Paese. I fatti che si sono susseguiti in questi anni, qui di seguito si fa elenco dei principali, ne danno indiscussa conferma:
- i referendum veneto-lombardi del 22 ottobre 2017 (oltre cinque milioni di votanti);
- il fattivo impegno autonomista dell’Emilia-Romagna, che, nel primo tratto di strada, ha condiviso le posizioni di Veneto e Lombardia;
- le pre-intese del 28 febbraio 2018 tra il Governo Gentiloni e le tre ricordate regioni;
- i negoziati tra queste ultime e i governi Conte (I e II) e Draghi;
- il tentativo di giungere alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) con l’aiuto del Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni (CLEP), istituito con d.p.c.m. 23 marzo 2023 e presieduto da Sabino Cassese;
- l’approvazione della l. 26 giugno 2024, n. 86 (la c.d. legge Calderoli), di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost.;
- l’impugnazione, sotto svariati profili, della legge Calderoli da parte di quattro regioni, Puglia, Campania, Toscana e Sardegna, a cui si è aggiunto l’intervento nel giudizio, ammesso dalla Corte e a difesa della legge, di altre tre regioni, Piemonte, Lombardia, Veneto;
- la raccolta delle firme (un milione e trecentomila circa) per abrogare la legge Calderoli, referendum la cui richiesta è stata tuttavia ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale (sent. 20 gennaio 2025, n. 10).
Il tutto accompagnato da un costante frastuono mediatico caratterizzato dallo scriteriato utilizzo di slogan, anche (e purtroppo) di provenienza accademica (uno per tutti, la «secessione dei ricchi», Viesti, 2019 e 2023).
Era abbastanza scontato, in una situazione di così elevato nervosismo politico-istituzionale, che la Corte costituzionale partorisse una sentenza monografia/trattato di diritto costituzionale/regionale (oltre 100 pagine, con un dispositivo recante 52 pronunce), finalizzata a «mettere le cose a posto», erigendo un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo. Poco spazio per il self restraint in un contesto in cui il giudice delle leggi ha dovuto farsi carico delle eccezioni più disparate, da quelle, radicali, di incostituzionalità dell’art. 116, terzo comma, Cost. (seppur posta in subordine dalla Puglia, su cui, in senso favorevole, Spadaro, 2025) o di illegittimità dell’intera legge attuativa, in ragione dell’affermato carattere autoapplicativo della disposizione costituzionale (l’esatto contrario di quello che hanno sostenuto i detrattori dell’autonomia differenziata per anni), alle contestazioni di estremo dettaglio, quale quella, è solo un esempio tra i tanti che si potrebbero portare, di illegittimità della norma sulle compartecipazioni per avere, in tesi, escluso la legge il meccanismo della riserva di aliquota.
Sia chiaro, è lecito chiedersi se la sentenza 14 novembre 2024, n. 192 (già commentata da Mazzarolli, 2024; Buzzacchi, 2024; Pinelli; 2024; Violini, 2024; Boggero, 2025; Lagrotta, 2025; Manfrellotti, 2025, Morrone, 2025; Poggi, 2025; Spadaro, 2025; Torretta, 2025) si ponga, a me pare sia così, in linea con la tendenza della Corte ad assumere funzioni ulteriori, di vera e propria supplenza nei confronti del legislatore (prefigurano la possibilità di tale critica, già controbattendo a essa, Buzzacchi, 2025, e Spadaro, 2025), rispetto alla verifica della stretta rispondenza delle leggi alla Carta fondamentale. Il «vero oggetto della decisione» è stato l’art. 116, terzo comma, Cost., la cui esegesi alla luce dei principi supremi (e, quindi, ben al di là di quel che il testo della disposizione costituzionale restituisce al lettore, lo evidenziano anche Pinelli, 2025 e Spadaro, 2025) è diventata la piattaforma argomentativa per sottoporre il testo della legge n. 86 del 2024 a una manipolazione interpretativa, «frutto di una sorta di “co-legislazione” esercitata dal giudice costituzionale» e finalizzata alla riscrittura della legge generale, «nel senso che anche gli accoglimenti si sono risolti nella positivizzazione di contenuti normativi diversi da quelli originari» (Morrone, 2025).
La vera domanda, tuttavia, è un’altra: ci si poteva attendere, nelle condizioni, anomale, in cui la Corte è stata chiamata a decidere, qualcosa di diverso?
Il punto di partenza: l’art. 116, terzo comma, Cost. non è una «monade isolata»
L’incipit, fors’anche d’effetto, ma veramente ovvio, è che l’art. 116, terzo comma, Cost., non è una «monade isolata», dovendo tale disposizione «essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiano, con cui va armonizzata». Di qui la sottolineatura, perfino didattica (cfr. sul punto Pinelli, 2025), della caratterizzazione regionalista di quest’ultima («il regionalismo corrisponde a un’esigenza insopprimibile della nostra società, come si è gradualmente strutturata anche grazie alla Costituzione») e della contemporanea necessità, cui deve sottostare anche la differenziazione delle competenze tra le regioni, di garantire l’equilibrata dialettica tra pluralismo e unità, «che può essere mantenuta solamente se le molteplici funzioni politiche e sociali e le singole persone, in cui si articola il popolo come “molteplicità”, convergono su un nucleo di valori condivisi che fanno dell’Italia una comunità politica con una sua identità collettiva. In essa confluiscono la storia e l’appartenenza a una comune civiltà, che si rispecchiano nei principi fondamentali della Costituzione. A tutto ciò si riferisce la stessa Costituzione quando richiama il concetto di “Nazione” (art. 9, 67 e 68 Cost.)».
Formule un po’ retoriche (e oltre modo generiche) che risultano certamente funzionali a uno scopo, quello di affermare che l’esigenza di valorizzazione del regionalismo non può determinare l’«evaporazione della nozione unitaria di popolo» («vi è solamente un popolo italiano, senza che siano in alcun modo configurabili dei “popoli regionali”»), che, come tale, è rappresentato unicamente dal Parlamento, cui spetta il compito di «comporre il pluralismo istituzionale» (su questa parte della sentenza in senso moderatamente critico, Spadaro, 2025). A esso, d’altra parte, ricorda la Corte, la Costituzione attribuisce competenze legislative esclusive per le materie in cui le esigenze di uniformità sono ritenute imprescindibili (art. 117, secondo comma, Cost.), la determinazione dei principi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), la competenza nelle materie «traversali» e la perequazione finanziaria a favore dei territori a minore capacità fiscale (art. 119, terzo comma, Cost.). Ma se il Parlamento è l’organo che contempera dinamicamente le esigenze dell’autonomia con quelle dell’unità (in quanto depositario dell’identità collettiva comune, la quale si fonderebbe sulla storia e sull’appartenenza a una comune civiltà), se ne dovrebbe necessariamente dedurre, secondo la Corte, l’impossibilità di sostenere, di qui l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2, comma 8, della Calderoli resa al punto 11.2 del Considerato in diritto, che l’ultimo periodo dell’art. 116, terzo comma, Cost. «intenda attribuire alle Camere un potere di mera approvazione o rifiuto dell’intesa (“prendere o lasciare”), precludendo la possibilità di introdurre emendamenti», con ovvia riapertura del negoziato tra Governo e regione qualora emerga che le Camere intendano intervenire in modifica (convintamente contrario rispetto a tale presa di posizione, Mazzarolli, 2024).
Il principio di sussidiarietà quale criterio misuratore della legittimità costituzionale delle iniziative di differenziazione ex art. 116, terzo comma, Cost.
Nell’evidenziato contesto, il criterio su cui deve fondarsi la ripartizione delle competenze e, quindi, il loro trasferimento alle regioni richiedenti è, secondo la Corte, il principio di sussidiarietà verticale di cui agli artt. 118, primo comma, e 120, secondo comma, Cost. Si tratta di snodo fondamentale (il «cuore teorico» dell’intera pronuncia, secondo Spadaro, 2025) nella ricostruzione del giudice costituzionale, il quale ritiene che l’art. 116, terzo comma, Cost., debba essere interpretato alla luce dell’anzidetto principio (anzi, in qualche modo ne sarebbe promanazione, in quanto «espressione della flessibilità» che gli è propria), con le seguenti affermate conseguenze:
- non c’è spazio in Costituzione per un modello astratto di attribuzione delle funzioni, dovendo la suddivisione dei compiti tra enti territoriali trovare il proprio parametro di riferimento in meccanismi concreti che risultino funzionali alla migliore realizzazione dei valori costituzionali;
- il trasferimento delle competenze deve riguardare, operando il principio di sussidiarietà attraverso un giudizio di adeguatezza, «specifiche e ben determinate funzioni», legislative o amministrative, e non intere materie, il che, peraltro, risulta chiaramente, e ciò basterebbe (così Pinelli, 2025), anche dal tenore letterale dell’art. 116, terzo comma, Cost. (e, avevo rilevato, anche dal testo del d.d.l. Calderoli, confermato in parte qua in sede di approvazione parlamentare, cfr. Giovanardi, 2023, I, conclusione questa, come è noto, non condivisa, con pronuncia additiva, dalla Corte, cfr. punto 8.3 del Considerato in diritto);
- la valutazione di adeguatezza dell’attribuzione delle funzioni deve essere considerata avendo riguardo a tre criteri, «l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro funzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione».
Di particolare interesse, per come esso è declinato dalla Corte, è il primo dei criteri testé detti: «lo spostamento della funzione verso il basso, soprattutto se la stessa funzione viene mantenuta con riguardo ad altre regioni, può in alcuni casi comportare la duplicazione degli apparati burocratici oppure la perdita di economie di scala. Di contro, con riguardo ad altre funzioni, dal loro trasferimento dallo Stato alla regione può derivare un risparmio dei costi, […]». Per ottenere una specifica competenza, quindi, si dovrebbe dimostrare, nell’«istruttoria approfondita suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate da un punto di vista scientifico», che il suo trasferimento determini, a livello di sistema (tenendo conto cioè anche dei costi che lo Stato deve continuare a sostenere per i suoi apparati e per il monitoraggio delle funzioni trasferite, cfr. punto 22.1 del Considerato in diritto), un risparmio o che, quanto meno, vi sia un miglioramento del servizio reso in termini quali-quantitativi a parità di spesa. I costi, inoltre, andrebbero calcolati, non solo per le funzioni LEP, non a spesa storica, richiedendo il loro trasferimento «la rimozione delle eventuali inefficienze che si annidano nella stessa» (punto 22.1 del Considerato in diritto), che invece risulterebbero altrimenti definitivamente «cristallizzate» (così nel punto 22.3 del Considerato in diritto, da cui, peraltro, si desume, è un profilo critico che meriterebbe di essere approfondito, che la spesa storica è incostituzionale se confermata nel passaggio e non anche se continua a essere utilizzata come criterio di riferimento dallo Stato, che risulterebbe dunque titolare di una sorta di «diritto allo spreco»).
Si tratta di impostazione dogmatica che desta notevoli perplessità (critico sull’utilizzo del principio di sussidiarietà tanto da parlare di «superfetazione dell’assetto costituzionale fondata sul principio di sussidiarietà», anche Pinelli, 2025), per almeno tre motivi.
Innanzitutto, occorre rilevare che il decisivo ruolo attribuito al principio di sussidiarietà non sembra trovare sufficienti riscontri nel testo costituzionale, rinviando l’art. 116, terzo comma, Cost., all’art. 119 Cost., e non anche all’art. 118 Cost. (che peraltro, come rileva Pinelli, 2025, distingue sussidiarietà da differenziazione e adeguatezza). Dato di fatto questo che non consente di condividere pienamente le osservazioni della dottrina (Morrone, 2025), che, pur stigmatizzando la valorizzazione che la Corte ha dato del principio, ha evidenziato che lo stesso, ad onta di quanto addotto dalla Consulta, finirebbe per non operare proprio nei confronti delle regioni differenziate perché l’attribuzione effettuata dall’intesa è «rigida e definitiva», insuscettibile quindi di essere rimessa unilateralmente in discussione in forza di una clausola di sussidiarietà, la cui operatività sarebbe limitata al momento, dinamico, del trasferimento delle competenze. Tale conclusione non riesce a convincere nella sua perentorietà, atteso che non tiene in sufficiente considerazione che il regionalismo rafforzato non può che fondarsi sulle intese, le quali, pur risultando funzionali a garantire la stabilità dell’accordo raggiunto (non potrebbe essere diversamente, giacché, altrimenti, all’art. 116, terzo comma, Cost., non riuscirebbe a darsi concreta attuazione), hanno una durata che non può superare i dieci anni, debbono prevedere «i casi, i tempi e le modalità con cui lo Stato o la Regione possono chiedere la cessazione della sua efficacia, che è deliberata con legge a maggioranza assoluta delle Camere» e possono unilateralmente venir meno per decisione dello Stato (che, ovviamente, deve essere deliberata dal Parlamento a maggioranza assoluta) qualora la regione non riesca a garantire i LEP (art. 7, co. 1, della l. n. 86 del 2024).
Il secondo profilo di criticità attiene alla declinazione del principio di sussidiarietà non solo come efficacia/efficienza, ma anche come equità (che in realtà è garantita dai LEP, alla cui determinazione è subordinato il trasferimento di competenze, cfr. Torretta, 2025) e responsabilità. Se, infatti, si riuscisse a dimostrare, al termine della più puntigliosa delle possibili istruttorie, che il costo di erogazione del servizio collegato alle funzioni ottenute scenderà con conseguente riduzione, tenendo conto anche dei carichi dello Stato, della spesa pubblica generale (e quindi con liberazione di risorse per tutto il sistema), si potrebbe forse pensare di bloccarne il trasferimento perché la comprovata efficienza dell’ente territoriale potrebbe creare delle diseguaglianze tra i residenti della regione che si differenzia e le persone che risiedono in territori meno efficienti? Si può immaginare poi che, in una situazione in cui gli abitanti di una determinata regione potrebbero usufruire di servizi resi in modo più efficace in un contesto di maggiore efficienza (a tutti i livelli), si fermi la devoluzione perché, si tratta peraltro di ipotesi controintuitiva, non sarebbero chiaramente individuabili dai cittadini le catene di comando e, quindi, la responsabilità politica dei decisori?
Il terzo, che forse, dal punto di vista pratico, è il più importante, è conseguenza della sottovalutazione della difficoltà di dimostrare ex ante, oltretutto tenendo conto dei costi che lo Stato dovrebbe comunque sostenere per le funzioni trasferite e per il loro monitoraggio, che ci saranno vantaggi di carattere finanziario in conseguenza della devoluzione. Difficoltà che potrebbe tramutarsi in impossibilità per effetto dell’insegnamento della Consulta, la quale ha avuto modo di specificare, nel punto 4.3 del Considerato in diritto, che il sindacato sulla legittimità costituzionale delle leggi di approvazione delle intese resta riservato alla Corte ed è attivabile dalle regioni terze, le quali potranno sottoporre al giudice costituzionale le scelte legislative che non risultino supportate dalle valutazioni di adeguatezza attraverso cui opera il principio di sussidiarietà (sembra escluderlo, pur nella consapevolezza della potenziale virtuosità del meccanismo individuato, Violini, 2025): non vi è dubbio, infatti, che l’evidenziata circostanza potrebbe indurre apparati statali già propensi alla recalcitranza a pretendere certezze in situazioni in cui si può contare solo su ragionevoli aspettative di miglioramento dell’efficacia/efficienza. Il tentativo di limitare gli spazi di intervento della politica riconducendo le scelte di differenziazione a una cifra tecnico-scientifica che la Corte potrà valutare nella sua rispondenza al principio di sussidiarietà è, peraltro, andato anche oltre, nella parte della sentenza (punto 4.4 del Considerato in diritto) in cui si elencano le materie (commercio con l’estero, tutela dell’ambiente, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, porti e aeroporti civili, professioni, ordinamento della comunicazione, norme generali sull’istruzione) «alle quali afferiscono funzioni il cui trasferimento è, in linea di massima, difficilmente giustificabile secondo il principio di sussidiarietà» per «motivi di ordine sia giuridico che tecnico o economico, che ne precludono il trasferimento» o, comunque, rendono «l’onere di giustificare la devoluzione alla luce del principio di sussidiarietà […] particolarmente gravoso e complesso».
Di qui una prima conclusione. La necessità di giustificare la devoluzione delle specifiche funzioni dallo Stato alle regioni che intendono differenziarsi alla luce del principio di sussidiarietà costituisce un formidabile fattore di conservazione dello status quo, tanto più se si utilizzeranno strumentalmente argomenti solidaristici volti a impedire il trasferimento delle funzioni alle regioni che riescono a gestirle in modo più efficiente o se si cercherà, in sede di negoziato, di attuare alla lettera le indicazioni date dalla Corte, non tenendo quindi in conto che la natura essenzialmente politica delle decisioni di differenziazione dovrebbe indurre a considerare l’istruttoria adeguatamente svolta ogni qualvolta si giunga a una ragionevole aspettativa in merito al miglioramento della gestione dal punto di vista dell’efficacia/efficienza. Occorre poi ricordare che l’istruttoria non dovrebbe svolgersi addossando l’onere della prova della maggiore efficienza esclusivamente alla regione, atteso che il principio di sussidiarietà si fonda sulla presunzione secondo la quale la migliore collocazione delle pubbliche funzioni è, salvo prova contraria, quella che le riconduce al livello di governo più vicino ai cittadini. In attuazione del principio di leale collaborazione, lo Stato non dovrebbe pertanto poter assumere una posizione passiva, quella del valutatore delle domande altrui: il Governo dovrebbe infatti, a fronte delle funzioni richieste, mettere sul tavolo gli elementi che giustificano il loro trattenimento, garantendo oltretutto alle regioni la totale disclosure sui dati economico-finanziari che sono a sua disposizione e che, come abbiamo visto, debbono poter essere considerati in sede di negoziato.
Un’ulteriore spinta al mantenimento dello status quo: il difficile percorso di individuazione dei LEP e dei correlati costi e fabbisogni standard
Le preoccupazioni sul carattere disgregante della legge di attuazione avrebbero dovuto fortemente attenuarsi a fronte delle previsioni della Calderoli funzionali a consentire la devoluzione solo successivamente alla determinazione dei LEP e dei costi e fabbisogni standard collegati all’esercizio delle funzioni che incidono sui diritti civili e sociali che danno corpo alla cittadinanza (art. 1, co. 2, e art. 4, co. 1, della l. n. 86 del 2024).
La Corte ha ritenuto, come noto, incostituzionale l’art. 3, co. 1, della l. n. 86 del 2024 per violazione dell’art. 76 Cost., data la carenza di specificità dei criteri direttivi ivi previsti (di qui, in via consequenziale, l’inapplicabilità e quindi l’incostituzionalità dei successivi commi 2, 4, 5 a 6 della medesima disposizione), smantellando anche la modalità di determinazione dei LEP con d.p.c.m. prevista dall’art. 3, co. 9 (con conseguente illegittimità in via consequenziale, a partire dall’entrata in vigore della l. n. 86 del 2024, dell’art. 1, commi da 791 a 801-bis, della l. 29 dicembre 2022, n. 197). Per il resto, e a ben vedere, la struttura, in parte qua, della legge ha retto, atteso che il giudice costituzionale:
- ha statuito che, mentre il nucleo minimo dei diritti va garantito a prescindere dagli equilibri di bilancio (in precedenza, Corte. cost., 16 luglio 1999, n. 309, 16 dicembre 2016, n. 275 e 20 luglio 2020, n. 152), i LEP costituiscono invece un «vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili» (dal che deriva la conformità a Costituzione dell’art. 4, co. 1, della Calderoli);
- ha ritenuto infondate le eccezioni di incostituzionalità dell’art. 3, co. 3, della l. n. 86 del 2024, dovendosi ritenere che l’individuazione delle materie non LEP comporti comunque che «i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni che concernono i diritti civili e sociali»;
- ha ritenuto, si tratta di riconoscimento non da poco in un Paese che aspetta da quasi venticinque anni la determinazione dei LEP, che l’art. 4, co. 1, della l. n. 86 del 2024, nella parte in cui stabilisce che, se la realizzazione dei LEP obbliga a ulteriore spesa, il trasferimento potrà avvenire solo successivamente al finanziamento, e l’art. 9, co. 3, della medesima legge, recante clausola di salvaguardia delle risorse da destinare alle regioni che non si differenziano, siano sufficienti a dimostrare che «la legge impugnata non si limita a richiedere la determinazione dei LEP, ma detta norme ulteriori, volte a far sì che essi non restino “sulla carta”, anche con specifico riferimento alle regioni terze».
Se tutto questo è vero e se, quindi, la situazione potrà essere, per le funzioni LEP, sbloccata a seguito dell’approvazione parlamentare di una nuova legge delega, distinta per materia (vd. sul punto, Torretta, 2025), e al varo dei successivi decreti legislativi, è anche vero che la determinazione dei LEP è cimento tutt’altro che semplice, circostanza questa che trova plastica dimostrazione nel Rapporto finale 2024 del CLEP, laddove si evidenzia che i LEP relativi alle 283 potenziali funzioni/prestazioni individuate dallo stesso Comitato nelle 14 materie LEP possono ricondursi a cinque diverse categorie: i) LEP a beneficio individuale; ii) LEP a beneficio collettivo; iii) LEP relativi a regole e vincoli nazionali; iv) LEP afferenti ai livelli essenziali di assistenza; v) LEP che richiedono un supplemento di indagine. Si individuano poi nello stesso rapporto i criteri metodologici di massima che dovrebbero consentire di addivenire alla conversione dei LEP in grandezze finanziarie (costi standard e fabbisogni standard), passaggio quest’ultimo che la Corte ritiene essenziale per il trasferimento di qualsivoglia funzione, anche non collegata all’esercizio dei diritti civili e sociali. Un percorso irto di complicatissimi tecnicismi, quindi, che si inserisce in un contesto politico-mediatico in cui si tende ad attribuire ai LEP funzioni salvifiche e assurdamente prescindenti da ogni equilibrio di bilancio: non sarà facile quindi arrivare alla meta, a meno che non si cerchi di semplificare notevolmente il processo di determinazione per le materie in cui la spesa statale è ripartita in modo tendenzialmente omogeneo tra i diversi territori, risultando verosimile che, in tali casi, la spesa storica non si discosti di molto dai fabbisogni standard (cfr. sul punto, Giovanardi, 2023, I).
I profili finanziari
Chiarito il ruolo del principio di sussidiarietà ed evidenziati, in modo molto sintetico, gli effetti della sentenza sul difficoltoso processo di determinazione dei LEP (un sostanziale rinvio), non resta che occuparci dei profili finanziari. La parte a essi dedicata mi sembra la più convincente della sentenza (in senso diametralmente opposto, Buzzacchi, 2024), ciò per le ragioni che si espongono qui di seguito.
Tutte le ricorrenti hanno eccepito che il finanziamento mediante compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale previsto dall’art. 5, comma 2, della Calderoli violerebbe gli artt. 2, 3, 5, 116, 117 e 119 Cost. perché ridurrebbe l’autonomia e le disponibilità finanziarie delle regioni con minore capacità fiscale per abitante rispetto a quelle che si differenziano. Si trattava di eccezione finanche pretestuosa, che, tuttavia, ha accompagnato il dibattito fin dalle origini e che la Corte ha definitivamente archiviato, specificando, al punto 23.2 del Considerato in diritto, che:
- «il meccanismo della compartecipazione non contraddice la clausola di invarianza finanziaria: esso, anzi, presuppone che la regione differenziata usi risorse (derivanti dalle compartecipazione) che lo Stato non deve più impiegare avendo ceduto la funzione» in un contesto in cui, lo si è già in precedenza visto, la misura delle compartecipazione non potrà essere superiore al costo sostenuto dallo Stato, dovendo oltretutto tener conto dei costi, determinati a standard, che lo Stato continuerà a sostenere (in senso critico su questa statuizione, Buzzacchi, 2025);
- la censura relativa all’«impoverimento delle altre regioni» è infondata perché contraddetta dal principio di invarianza finanziaria di cui al citato art. 9, co. 3 della legge e dalle altre disposizioni citate;
- la censura relativa alla discriminazione delle regioni con minore capacità fiscale è infondata perché «il meccanismo della compartecipazione dovrà essere calibrato di volta in volta in modo da garantire una quantità sufficiente di risorse a ciascuna regione per lo svolgimento delle funzioni attribuite» (detto in altri termini, è imbarazzante doverlo spiegare, se per l’esercizio della medesima funzione riconosciuto a due regioni, una ricca e una povera, si attribuisce una compartecipazione che misura 100, non è che la regione più povera risulta discriminata perché quel 100 equivale al 2 per cento del gettito di un determinato tributo piuttosto che all’1 per cento della regione ricca);
- l’esclusione dei tributi propri e del fondo perequativo dalle forme di finanziamento possibili è legittima sia perché rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta del mezzo di finanziamento, purché lo stesso sia previsto nell’art. 119 Cost., sia perché (mi verrebbe da dire soprattutto perché) «il riferimento alle compartecipazioni risulta coerente con la logica della legge in esame, che è quella del trasferimento “a costo zero”», logica a cui si contravverrebbe se si finanziassero le funzioni trasferite con tributi regionali, implicando una siffatta scelta «un inasprimento degli oneri tributari e, dunque, un maggior costo (non venendo diminuito il carico dei tributi erariali)» (confermato quindi quanto ho a più riprese sostenuto, cfr. Giovanardi-Stevanato, 2020; Giovanardi, 2022, 2023, I e II, nello stesso senso Scanu, 2019, Zanardi, 2017; contra Palermo, 2001);
- la censura della sola Regione Toscana in merito alla presunta esclusione della riserva d’aliquota come mezzo di finanziamento è infondata perché rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta del meccanismo della compartecipazione (il che farebbe pensare che la Corte consideri la riserva d’aliquota, su cui vd. Giovanardi-Stevanato, 2020, che altro non è che una species del genus compartecipazioni, una forma di finanziamento possibile perché, altrimenti, si sarebbe potuto escluderla in ragione del numerus clausus previsto dall’art. 119 Cost.).
Un discorso a parte merita l’art. 8, co. 2, della legge, dichiarato incostituzionale dalla Corte, il quale, introdotto con un emendamento in sede di approvazione parlamentare, prevedeva che la Commissione paritetica dovesse provvedere annualmente «alla ricognizione dell’allineamento tra i fabbisogni di spesa già definiti e l’andamento del gettito dei tributi compartecipati per il finanziamento delle medesime funzioni». In caso di scostamento dovuto alla variazione dei fabbisogni o all’andamento del gettito compartecipato, «il Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie, previa intesa in sede di Conferenza unificata, adotta, su proposta della Commissione paritetica, le necessarie variazioni delle aliquote di compartecipazione definite nelle intese ai sensi dell’articolo 5, comma 2, garantendo comunque l’equilibrio di bilancio e nei limiti delle risorse disponibili». Sulla base dei dati del gettito effettivo a consuntivo, si procede, anno per anno, «alle conseguenti regolazioni finanziarie relative alle annualità decorse, sempre nei limiti delle risorse disponibili». In definitiva, un meccanismo di commisurazione, millimetrica, del gettito alle spese da sostenersi, pensato evidentemente per evitare che le regioni che ottengano le nuove competenze potessero trattenersi parte del surplus derivante dallo svolgimento del meccanismo compartecipativo, con effetti disastrosi per quel che riguarda gli incentivi all’efficienza, atteso che, in ragione dell’art. 8, co. 2, si sarebbero dovuti restituire anche gli avanzi derivanti dai risparmi conseguiti dalla regione. Dall’altra parte, la norma prevedeva che le regolazioni finanziarie annuali dovessero sempre essere effettuate, evidentemente anche quando la differenza tra gettito da compartecipazione e spesa fosse di segno negativo, circostanza questa che avrebbe determinato la necessità per lo Stato di coprire a piè di lista i disavanzi, anche se derivanti dagli sprechi regionali nella gestione dei compiti ottenuti in ragione dell’entrata in vigore della legge di approvazione dell’intesa. Condivisibile quindi l’osservazione della Corte, secondo la quale «l’art. 119 Cost. (ai cui principi l’art. 116, terzo comma, Cost., rimanda) prevede sì, del resto, il finanziamento delle funzioni territoriali anche tramite compartecipazioni, ma non contempla quello dell’allineamento, che di fatto finisce per snaturarne l’essenza, rendendole in sostanza del tutto analoghe ai trasferimenti statali a destinazione vincolata, che il medesimo articolo, nell’ottica del superamento della finanza derivata, legittima solo nelle puntuali ipotesi del quinto comma». La Corte, per il vero, pare preoccupata esclusivamente dei disavanzi che le regioni potrebbero generare, tanto da affermare che «un meccanismo che consenta di disporre di una sorta di “paracadute” finanziario annuale […] non si giustifica per tali funzioni aggiuntive, che la regione dovrebbe proporsi di gestire al posto dello Stato proprio confidando sulla maggiore efficacia ed efficienza del livello di governo più prossimo al territorio»; è altresì indubitabile, tuttavia, che gli effetti dell’accoglimento della censura di incostituzionalità si riverberano anche nei confronti di chi invece è in grado di ottenere dei surplus (ne ha preso atto Boggero, 2025), che, quindi, potranno essere trattenuti dalla regione differenziata, garantendosi in tal modo il pieno funzionamento del meccanismo compartecipativo (si erano pronunciati a favore della possibilità del trattenimento e, comunque, anche della necessità di dover far fronte autonomamente agli eventuali disavanzi, Stevanato, 2019; Giovanardi e Stevanato, 2020; contra Patroni Griffi, 2019 e 2021; Gallo, 2019).
Un tentativo di sintesi
Si è detto in apertura che la sentenza n. 192 del 2024, nella sua ampiezza e complessità argomentativa, funge da spartiacque tra un prima e un dopo. Occorre chiedersi quindi se corrisponda a verità che la Corte costituzionale ha demolito la legge Calderoli, rendendo inattuale ogni prospettiva di realizzazione dei processi di differenziazione. La risposta non può essere data con immediata perentorietà, proprio in ragione dell’impostazione della pronuncia, fortemente tesa a costruire più che a interpretare, nella logica proattiva del co-legislatore.
Quel che si può dire, sicuramente, è che la discutibile elevazione della sussidiarietà a principio fondante del Titolo V, con tutto quello che la Corte ne fa derivare in termini di «prova» del diritto a differenziarsi, potrebbe ostacolare, se i dettami della Corte venissero intesi alla lettera, l’equilibrato svolgimento dei negoziati, a danno dell’intero sistema costituzionale. Tutto ciò, peraltro, in un contesto in cui il regionalismo rafforzato deve già fare i conti con le obiettive difficoltà di determinazione dei LEP e dei costi e fabbisogni standard.
Non può non rilevarsi, tuttavia, che la Corte è contemporaneamente giunta a importanti conclusioni su uno degli argomenti più divisivi nel dibattito, quello del finanziamento delle competenze trasferite. Sarà un sollievo poter replicare con le lucide argomentazioni dei giudici costituzionali a chi, l’elencazione non è esaustiva, ancora parlerà di LEP che prescindono dagli equilibri di bilancio, di tributi propri che dovrebbero finanziare le funzioni devolute, di impoverimento delle regioni terze, di necessità che la legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. finanzi i LEP, di impossibilità di trattenere quei surplus (e di rispondere dei disavanzi) che derivano dallo svolgimento dei meccanismi compartecipativi.
Se poi si tiene conto che sui LEP si sa oggi quel che si deve fare e, quindi, a una legge delega conforme a Costituzione si riuscirà ad arrivare, si può dire che è vero che la strada è ancora in salita, ma anche che comincia a intravedersi tra le nubi la cima della montagna.
Riferimenti bibliografici
Boggero, G. (2024), Quale differenziazione per la Regione Piemonte dopo la sentenza n. 192/2024?, in Il Piemonte delle Autonomie, p. 260 e s.;
Buzzacchi, C. (2024), Pluralismo, differenze, sussidiarietà ed eguaglianza: della sentenza n. 192 del 2024 il modello per il sistema regionale “differenziato”, in Astrid Rassegna;
Comitato tecnico scientifico con funzioni istruttorie per l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni, Rapporto finale 2024.
Gallo, F. (2019), I limiti del regionalismo differenziato, in Rass. trib., p. 239 e s.;
Giovanardi, A. (2022), Dalla timida e incompleta attuazione del federalismo fiscale ai non riusciti tentativi di differenziazione: riflessioni in merito agli effetti dell’attuale situazione di stallo sulla sostenibilità economica degli odierni flussi di prelievo e spesa nei diversi territori, in Riv. trim. dir. trib., p. 111 e s.;
Giovanardi, A. (2023), Autonomia differenziata versus solidarietà territoriale; contro l’utilizzo strumentale dell’argomento solidaristico, in Cortese, F. e Woelk, J., Autonomie speciali e regionalismo italiano, Milano, p. 254 e s.;
Giovanardi, A. (2023), Gutta cavat lapidem (si spera): ancora sui profili finanziari del regionalismo rafforzato, in Riv. tel. dir. trib., 10 giugno, p. 3-4;
Giovanardi, A., Stevanato, D. (2020), Autonomia, differenziazione, responsabilità. Numeri, principi e prospettive del regionalismo rafforzato, Venezia;
Lagrotta, I., La pars contruens della sentenza della Corte costituzionale n. 192/2024 in materia di autonomia differenziata, in Judicium, 1 aprile 2025;
Manfrellotti, R., La sent. n. 192 del 2024 della Corte Costituzionale e gli atti amministrativi generali a contenuto normativo, in lecostituzionaliste.it, dicembre 2024;
Mazzarolli, L. (2024), I contenuti della sentenza della Corte costituzionale sulla c.d. “legge Calderoli” n. 86/2024, in Riv. giur. AmbienteDiritto;
Morrone, A., Lo stato regionale dopo la sent. n. 192 del 2024, in Giustizia insieme, 28 gennaio 2025;
Palermo, F. (2001), Il regionalismo differenziato, in Groppi, T. e Olivetti, M. (a cura di), La Repubblica delle autonomie. Regioni ed enti locali nel nuovo Titolo V, Torino, p. 51 e s.;
Patroni Griffi, A. (2019), Regionalismo differenziato e coesione territoriale, in Regionalismo differenziato: un percorso difficile, in Atti del convegno Regionalismo differenziato: opportunità e criticità (Milano, 8 ottobre 2019);
Patroni Griffi, A. (2021), Regionalismo differenziato, in Dig disc. pubbl., Torino, p. 317 e s.;
Pinelli, C., Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come una “monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), in www.diariodidirittopubblico.it, 23 dicembre 2024;
Poggi, A. (2025), Il referendum sul regionalismo differenziato: i principi, l’attuazione, le Corti e la sovranità popolare, in Federalismi.it, 1o gennaio;
Scanu, G. (2019), Regionalismo differenziato e sostenibilità finanziaria, in Riv. trim. dir trib., p. 37 e s.;
Spadaro, A., La “quadratura del cerchio” … o della sent. cost. n. 192/2024, in Dir. reg., 29 gennaio 2025;
Stevanato, D. (2019), Profili finanziari del regionalismo differenziato, in Econ. soc. reg., p. 95 e s.;
Torretta P., La disciplina dei LEP per l’autonomia differenziata (ma non solo) al vaglio della Corte costituzionale. Note a margine della sentenza n. 192/2024, in Federalismi.it, 7 maggio 2025;
Viesti, G. (2019), Verso la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Bari;
Viesti, G. (2023), Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Bari;
Violini, L., Alcune considerazioni sulla sentenza nr. 192/2024 della Corte Costituzionale, in Le Costituzionaliste, 17 dicembre 2024;
Zanardi, A. (2017), Le richieste di federalismo differenziato: una nota sui profili di finanza pubblica, in Astrid Rassegna.
Abstract: La sentenza 14 novembre 2024, n. 192, è pronuncia fondamentale perché, avendo a oggetto la legittimità della legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. (l. 26 giugno 2024, n. 86), non si esime dall’inquadrare sistematicamente il ruolo della differenziazione nel quadro del regionalismo italiano, da interpretarsi alla luce dei principi supremi, tra cui, ovviamente, quello di unità e indivisibilità della Repubblica. Snodo fondamentale della pronuncia è la valorizzazione del principio di sussidiarietà come misuratore della costituzionalità dei processi di trasferimento delle specifiche funzioni dallo Stato alle regioni. Di grande interesse sono anche le indicazioni in materia di determinazione dei LEP che la Corte ha dato alla politica e le aperture che sono derivate dall’esame attento delle censure relative ai meccanismi di finanziamento del regionalismo rafforzato.
Parole chiave: autonomia regionale differenziata, principio di sussidiarietà, livelli essenziali delle prestazioni, compartecipazioni
Differentiated regionalism after the Constitutional Court’s judgment no. 192 of 2024
Andrea Giovanardi
Abstract: Judgment 14 November 2024, no. 192, constitutes a landmark ruling, because it addresses the legitimacy of the implementing law of Article 116, third paragraph, of the Constitution (l. 26 June 2024, n. 86), and consequently returns a systematic framing of the role of differentiation in the Italian regional model, which has to be read in consideration of the fundamental constitutional principles, including, most notably, the principle of the unity and indivisibility of the Republic. A pivotal aspect of the decision lies on the affirmation of the principle of subsidiarity as the constitutional benchmark for assessing the legitimacy of the transfer of specific functions from the State to the Regions. Particularly noteworthy are also the Court’s indications to the political sphere regarding the determination of the Essential Levels of Performance (LEP), as well as the significant openings that emerged from the scrutiny of the objections concerning the financing mechanisms of enhanced regionalism.
Keywords: differentiated regional autonomy, principle of subsidiarity, Essential Levels of Performance, participation in State tax revenues.