Gli insegnamenti della Corte costituzionale nella sentenza n. 192/2024. Quale lezione per le riforme locali? / Marzia De Donno
Numero 1 2025 • ANNO XLVI
Professoressa associata di Diritto amministrativo, Università di Ferrara
Premessa. La sentenza della Corte costituzionale n. 192/2024 come guida alla realizzazione della Repubblica delle autonomie
Com’è stato riconosciuto, con la pronuncia n. 192/2024 sulla legittimità costituzionale della legge n. 86/2024 (c.d. Legge Calderoli), la Corte costituzionale si è spinta oltre il tema del regionalismo differenziato, cogliendo questa occasione per compiere anche «una riflessione più ampia sul progetto regionalista», e così «tracciando un imponente affresco che rappresenta al tempo stesso un bilancio sullo stato di salute e una guida alla realizzazione della “Repubblica delle autonomie”» (Gardini 2025, 251).
Non è solo un “intento didascalico” quello che muove la Corte, la quale – come ancora è stato affermato – pure ha voluto spiegare «preliminarmente a quanti lo ignorassero quali princìpi, regole e istituti vengono messi a rischio ove la disposizione dell’art. 116, terzo comma, si consider[asse] “una monade isolata”» (Pinelli 2024, 1-2).
Nell’ampia premessa che anticipa la motivazione della sentenza (p.to 4 del Considerato in diritto) si rinviene, infatti, anche una lettura sistematica dei principi costituzionali che fondano e devono reggere il modello di Stato regionale tradotto in Costituzione con la riforma del 2001, e di qui il rapporto tra Stato, Regioni e gli stessi enti locali, e dunque, ancora più in generale, tra le esigenze dell’unità nazionale, dell’autonomia regionale e del decentramento amministrativo.
Nel farlo, la Corte ricorre certamente a interpretazioni «acquisite» dalla precedente giurisprudenza costituzionale, ma alcune di esse vengono «aggiornate o [persino] riviste per la prima volta dalla stessa Corte» (Pinelli 2024, 1; Bartole 2024; Morrone 2025).
L’importanza non solo storica di questa sentenza ci spinge perciò a compiere alcune riflessioni al di là delle questioni più strettamente afferenti il regionalismo differenziato e la Legge Calderoli, andando a ricercare quali siano gli insegnamenti che è possibile trarre da questa pronuncia esattamente nella direzione della tanto auspicata realizzazione della Repubblica delle autonomie (AA.VV. 2021).
La fase nella quale ci collochiamo – e soprattutto nella quale si colloca attualmente l’iter delle riforme territoriali nel nostro Paese e, tra le altre, nella stessa Regione Emilia-Romagna – è tale, del resto, da richiedere e giustificare precisamente uno sforzo di questo tipo.
Non è ovviamente questa la sede per descrivere lo stato in cui versa l’organizzazione amministrativa territoriale – regionale e locale – a ormai oltre dieci anni dall’ultima riforma di sistema introdotta con la Legge Delrio, né per soffermarsi sui processi di riforma tentati e su quelli attualmente in corso in materia di revisione del TUEL (AA.VV. 2023). D’altronde, le riforme di riordino territoriale figurano tra gli stessi obiettivi del programma di mandato della nuova Giunta regionale dell’Emilia-Romagna, al fine di avviare una nuova politica di coesione infra-regionale anche attraverso la revisione delle due principali leggi sul sistema amministrativo regionale e locale, la l.r. n. 13/2015 e la l.r. n. 21/2012.
Cosicché l’intento è precisamente quello di soffermarsi su quale lezione lo Stato, la Regione Emilia-Romagna così come tutte le altre Regioni potrebbero trarre da questa pronuncia, rispettivamente, nel portare avanti o nell’intraprendere il percorso di riforme territoriali nel prossimo – si spera immediato – futuro.
Per farlo, risulta necessaria in via preliminare una breve analisi dei passaggi maggiormente rilevanti della sentenza e, in particolare, dell’ampia premessa che apre la parte motiva in diritto.
La (lunga) premessa alla motivazione in diritto della sentenza tra intento “didascalico” e “sistematico” della Corte
Nel complesso sistema istituzionale che caratterizza la Repubblica italiana, i principi cardine che, secondo la Corte costituzionale, sono chiamati ad assicurare il bilanciamento tra unità nazionale e pluralismo istituzionale, tra esigenze del centro e istanze delle autonomie sono diversi.
Il principio di sussidiarietà viene posto al centro di quella che ha il vero sapore di una trattazione da manuale (Balboni 2024). Ad esso, quindi, la Corte affianca in maniera sistematica i principi di adeguatezza e differenziazione, da un lato, e quelli di equità, solidarietà, leale collaborazione e responsabilità, dall’altro.
La lettura che di questi principi viene offerta dalla Consulta restituisce così l’impressione di trovarsi dinanzi alla stessa struttura portante della forma di Stato italiana: ciascuno di quei principi rappresenta un pilastro della Repubblica delle autonomie, e il venir meno di anche uno solo di essi rischia di comprometterne la stabilità.
Più precisamente, nella sentenza, il principio di sussidiarietà, quale criterio guida per operare il riparto delle funzioni amministrative tra lo Stato e gli enti territoriali, viene saldamente agganciato – come, appunto, da manuale – innanzitutto al criterio della prossimità e ai principi di adeguatezza e differenziazione.
Richiamando le parole della Corte, il principio di sussidiarietà «esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo».
Viene quindi impiegata la metafora dell’ascensore, quella stessa che si usa talvolta con gli studenti per far cogliere il senso di questo principio: «la sussidiarietà funziona, per così dire, come un ascensore, perché può portare ad allocare la funzione, a seconda delle specifiche circostanze, ora verso il basso ora verso l’alto».
Al tempo stesso e proprio per questo – si avverte ancora nella pronuncia – la ripartizione delle funzioni «non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi».
È quest’ultimo, certamente, un monito cui la Corte ha fatto ricorso per intervenire nell’aspro dibattito politico e istituzionale creatosi attorno al regionalismo differenziato, ma esso – crediamo – enuclea un principio di diritto valido di per sé, che ben può essere applicato ogniqualvolta si operi un riparto di funzioni amministrative tra più livelli di governo: statale, regionale e locale.
Di questo si ha la netta percezione proprio quando il giudice si sofferma sul principio di adeguatezza (§ 4.2.).
La scelta di allocazione delle funzioni amministrative e delle relative risorse deve essere guidata – si legge – anzitutto dai criteri di efficacia e di efficienza amministrativa, nel rispetto dei principi dell’equilibrio di bilancio e del buon andamento ex art. 97 Cost. Quindi, proprio con quell’intento didascalico di cui si è detto, la Corte giunge a fornire anche un preciso elenco di casi di applicazione del principio di adeguatezza, a mo’ di esempi concreti che assicurino la comprensione.
Ne discende che è proprio l’adeguatezza a stabilire il piano cui dovrà fermarsi l’ascensore della sussidiarietà. E si tratterà di un piano elevato – statale e persino europeo – quando: 1) la centralizzazione determina evidenti economie di scala, evitando, fra l’altro, una duplicazione degli apparati burocratici; 2) è richiesta per realizzare il coordinamento efficace di molteplici attori distribuiti sul territorio; 3) qualora gli shock (crisi economiche, emergenze ambientali, sanitarie, geo-economiche ed altro) che investono una comunità locale possono essere superati attraverso l’intervento solidaristico del centro; 4) l’esercizio locale della funzione determinerebbe effetti di spill-over negativi sul territorio di un’altra Regione; 5) l’esistenza di regolamentazioni locali si tradurrebbe in barriere territoriali alla concorrenza che pregiudicano l’unità del mercato; 6) la funzione attiene agli interessi dell’intera comunità nazionale, la cui cura non può essere frammentata territorialmente senza compromettere la stessa esistenza di tale comunità o comunque l’efficienza della funzione.
Viceversa, potrà trattarsi di un piano inferiore – regionale o locale – quando l’allocazione delle funzioni pubbliche ad un livello territoriale di governo più basso può consentire all’autorità pubblica di: 1) conoscere più attentamente le peculiarità dell’ambiente in cui la funzione è svolta; 2) potersi meglio adeguare alle preferenze dei cittadini e alle condizioni locali; 3) monitorare gli effetti concreti dell’attività pubblica e procedere rapidamente a eventuali autocorrezioni; 4) realizzare più efficacemente sperimentazioni e innovazioni che permettono di migliorare la qualità o l’efficienza delle prestazioni pubbliche; 5) rendere più facile la promozione della partecipazione e della sussidiarietà orizzontale. In definitiva, 6) quando può derivare un risparmio dei costi, anche grazie all’adozione di modalità di esercizio più adeguate alla realtà locale o al ricorso alla sperimentazione, oppure in conseguenza di una migliore capacità amministrativa, specie se esistono meccanismi che, in qualche modo, premino i comportamenti fiscalmente virtuosi.
Nelle successive argomentazioni della Corte, sono quindi gli stessi principi di adeguatezza e differenziazione a saldarsi strettamente.
Quest’ultimo, in particolare, trova la propria ragion d’essere nel pluralismo sancito in Costituzione e che, di fatto, connota da sempre la società e la Repubblica italiane.
È proprio, infatti, la «ricchezza di interessi e di idee di una società altamente pluralistica come quella italiana» a non poter «trovare espressione in una unica sede istituzionale». Essa, per contro, richiede «una molteplicità di canali e di sedi in cui trovi voce e dalle quali possa ottenere delle politiche pubbliche, anche differenziate, in risposta alle domande emergenti».
Il pluralismo implica dunque di per sé politiche pubbliche adeguate ai differenti contesti sociali e territoriali, e la differenziazione si giustifica proprio alla luce dello sforzo che devono compiere le istituzioni nel conseguire «i migliori risultati» possibili, per soddisfare le plurime e altrettanto differenziate esigenze dei propri cittadini.
Solo se concepita in tal modo e solo, dunque, se messa in stretta relazione con la «tutela dei diritti degli individui e delle formazioni sociali» la differenziazione può giustificarsi e divenire «strumento al servizio del bene comune»: una didascalica rappresentazione del principio di differenziazione e, con esso, del principio di uguaglianza sostanziale, a parziale rimedio e correttivo della stessa uniformità amministrativa e del principio di uguaglianza formale.
Ma è proprio il riferimento al dovere di assicurare l’eguale godimento dei diritti da parte di tutti i cittadini – dovere, questo sì, che richiede di assicurare un certo grado uniformità e, di qui, l’unità e la coesione sociale, economica, giuridica e territoriale del Paese –, a costituire il presupposto giustificativo per trattare anche dell’altro gruppo di principi che, secondo la Corte, devono caratterizzare la forma di Stato e «il cui indebolimento può sfociare nella stessa crisi della democrazia».
Viene chiamato in causa innanzitutto il principio di equità, che appare svolgere un duplice ruolo in rapporto alla stessa «differenziazione territoriale delle regole e dell’attività amministrativa».
Da un lato, infatti, il principio di equità assolve una funzione di giustificazione della stessa differenziazione, che, nella misura in cui consente una maggiore aderenza delle politiche pubbliche alle concrete esigenze dei cittadini può essere avvertita come portatrice di soluzioni più eque e giuste nella diversità dei territori. Dall’altro lato, e al tempo stesso, però questo principio è chiamato a fungere anche da correttivo alla stessa differenziazione territoriale, la quale inevitabilmente può produrre disuguaglianze nei livelli di tutela e godimento dei diritti, a causa della diversa distribuzione del reddito e delle capacità fiscali espresse dai territori così come delle stesse capacità amministrative degli enti chiamati a governarli.
Il grado di differenziazione tollerabile – e, perciò, equo e giusto – sarà pertanto quello che consente di raggiungere, esattamente sotto la guida del principio di equità, un ragionevole punto di equilibrio «attraverso un’adeguata allocazione delle funzioni e idonei meccanismi correttivi delle disparità».
Un’affermazione, questa, che rinviene la propria base giuridica in differenti norme della Costituzione richiamate dalla Corte: l’art. 2, l’art. 3, comma 2, l’art. 117 comma secondo lett. e ed m, l’art. 119, commi 3, 5 e 6, l’art. 120, comma 2, i quali tutti presuppongono e richiedono l’intervento unitario e di garanzia del centro a compensazione dei divari territoriali, sociali ed economici del Paese.
Strettamente ancorato al principio di equità è, quindi, il principio di solidarietà, attorno al quale, secondo la Corte, si devono saldare tutte le relazioni inter-istituzionali, a superamento dell’inevitabile grado di differenza e concorrenza che può crearsi tra i vari territori italiani.
Una concorrenza, afferma ancora la Corte, «che può anche giovare a innalzare la qualità delle prestazioni pubbliche», ma che «non potrà spingersi fino a minare la solidarietà tra lo Stato e le Regioni e tra Regioni, l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art. 120 Cost.), l’eguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti (art. 3 Cost.), l’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.) e quindi la coesione sociale e l’unità nazionale». Ed è quindi attraverso, in particolare, il richiamo al principio di leale collaborazione che la Corte torna a ribadire per il regionalismo italiano la natura non di un «regionalismo duale» ma di un «regionalismo cooperativo».
In tale ottica, diviene perciò fondamentale il richiamo compiuto anche all’ultimo dei principi di cui si compone l’architettura istituzionale tratteggiata nella sentenza: il principio di responsabilità.
Si tratta di un principio che, di nuovo, deve muovere tutte le relazioni inter-istituzionali: innanzitutto in occasione della distribuzione delle funzioni amministrative, con preferenza – si legge sempre nella sentenza – per i livelli «più vicini alla popolazione», e, successivamente, durante l’esercizio delle stesse, in termini di responsabilità (non solo) politica nei confronti della «comunità governata».
Nel ricordare in questo frangente una delle ispirazioni iniziali delle scelte costituzionali, cioè quella di «educare i cittadini all’autogoverno», diviene così palese anche il collegamento tra il principio di responsabilità e il principio di autonomia (regionale e locale) e tra questi e il principio democratico. D’altro canto, è sempre al principio di responsabilità ad essere affidato, di nuovo, il ruolo di guida nei rapporti tra poteri qualora l’attrazione verso l’alto delle competenze, verso un unico centro decisore, diventi la soluzione raccomandabile per scongiurare la frammentazione amministrativa, i rischi per la spesa pubblica, la dispersione delle stesse responsabilità (incluse quelle finanziarie), avuto riguardo, tra l’altro, agli impegni assunti con l’Unione europea.
Si chiude così il cerchio di un discorso lineare, magistrale e comprensibile in ogni sua parte. Una lezione che lo Stato e le autonomie dovrebbero adesso apprendere, assimilare diligentemente e mettere in pratica.
La “dimensione sociale dei territori” nella “nuova” architettura istituzionale dello Stato regionale italiano
Come anticipato, la prima dottrina di commento della sentenza ha ravvisato alcuni tratti di novità nel discorso compiuto dalla Corte costituzionale.
Ed invero, la prima sensazione che si ha leggendo anche solo la premessa alla motivazione in diritto è che la novità dipenda, almeno in parte, dal forte iato esistente tra lo stesso disegno istituzionale ivi tratteggiato e la realtà amministrativa del nostro Paese. Per cui la speranza che esso possa trovare una qualche forma di concretizzazione potrebbe produrre, già di per sé, un reale slancio innovativo nel prossimo futuro.
Ciò detto, in realtà, un tratto originale del ragionamento della Corte andrebbe ravvisato non tanto, o meglio, non solo nella “nuova” – perché (ancora) inattuata – architettura dello Stato regionale italiano, quanto soprattutto nel forte legame tra i principi costituzionali di riferimento individuati dal Giudice e descritti nel paragrafo precedente.
Principi che, in nostra opinione, non sarebbero stati chiamati a presidiare soltanto l’applicazione dell’art. 116, comma 3 Cost. ma, in una prospettiva più ampia, anche a governare ogni prossima scelta di riparto delle funzioni amministrative tra lo Sato, le Regioni e le stesse autonomie locali.
In altri termini, non ci sembra del tutto irragionevole sostenere che, dopo questa sentenza, la distribuzione legislativa delle competenze amministrative dovrà operare, ex parte populi, attraverso non più la sola testuale applicazione dell’art. 118, comma 1 Cost. ma in forza di una complessiva combinazione di tutti i principi richiamati dalla Consulta, e, quindi, esattamente dei principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, da un lato, e di equità, solidarietà, leale collaborazione e responsabilità, dall’altro.
Il che, a ben vedere, inaugurerebbe un discorso in parte inedito, nel quale, invero, si potrebbero cogliere importanti e significativi punti di contatto con le riflessioni avviate ormai da qualche tempo dalla dottrina.
È noto, infatti, che in un contesto di disuguaglianze sociali e disparità territoriali crescenti, causate in rapida successione dalla crisi economica, dalla crisi pandemica ed energetica, quindi fatte oggetto di attenzione dello stesso PNRR e impostesi con tutte le loro criticità nel dibattito sul regionalismo differenziato, la dottrina abbia posto l’accento esattamente sui diritti e i bisogni delle persone che vivono in territori profondamente diversi tra loro.
Proprio alla luce delle complessità amministrative riscontrate in un sistema istituzionale policentrico e multilivello, il discorso sulla c.d. “dimensione sociale dei territori” e sulla centralità del benessere delle persone al cui soddisfacimento sono preordinate tutte le istituzioni pubbliche, ha innescato così un rovesciamento di prospettiva rispetto ad impostazioni scientifiche consuete.
Un rovesciamento che ha richiesto, cioè, di riconsiderare adeguatamente non più solo l’attività delle amministrazioni pubbliche ma soprattutto, e prima ancora, i loro aspetti organizzativi e la stessa organizzazione territoriale dei poteri (Barbati 2021), avendo di mira il fine ultimo della stessa azione di governo: garantire esattamente il bene comune e il benessere degli individui.
Del resto, come noto, è la stessa organizzazione a svolgere una funzione di legittimazione del potere pubblico da parte degli stessi consociati. Ed è facile intuire, guardando all’oggi, quale possa essere il livello di delegittimazione raggiunto dalle amministrazioni italiane.
Come allora è stato affermato, proprio un’impostazione di questo tipo dovrebbe suggerire uno spostamento del focus di analisi tanto nei teorizzatori quanto, e prima ancora, nelle stesse amministrazioni: «dal riparto di competenze (chi fa cosa)» verso il «contenuto essenziale (cosa) dei diritti, per garantire i bisogni sociali dei cittadini» (Manganaro 2016, 77).
In un ragionamento di questo tipo, com’è stato ancora osservato, è perciò innanzitutto lo stesso principio di autonomia a dover mutare i propri connotati: un principio che se già di per sé dovrebbe portare «a sintesi un modello relazionale tra tutti i soggetti dell’ordinamento, venendo a qualificare la natura e il modo d’essere del potere pubblico nella sua globalità» (Gardini, Tubertini 2022, 10), a maggior ragione oggi esso dovrebbe essere inteso e applicato non secondo una mera logica di accrescimento funzionale degli enti, ma precisamente secondo un diverso modo di intendere la stessa organizzazione dei poteri, il rapporto tra di essi e con i bisogni e i diritti dei cittadini.
In altri termini, come ancora è stato detto, il principio di autonomia, informato agli stessi principi di legalità, responsabilità e democraticità, dovrebbe condurre le istanze autonomistiche «oltre [la mera] individuazione e la ripartizione delle funzioni», e verso un nuovo ruolo da attribuire allo stesso art. 5 della Costituzione: una «regola fondamentale delle scelte democratiche, che intendono realizzare una legalità che tenga conto dei differenziati bisogni sociali»; ché, del resto, «l’amministrazione non si misura sulla gerarchia delle fonti, quanto piuttosto sul soddisfacimento delle esigenze sociali di una Repubblica i cui territori sono profondamenti differenziati» tra loro (Manganaro 2016, 22-24).
Come si nota, in questo discorso è lo stesso principio di differenziazione a venire in questione. Sarebbe, del resto, proprio l’epoca attuale ad essere contrassegnata da un forte paradosso tra, da un lato, l’esigenza di assicurare una differenziazione territoriale che rompe l’omogeneità delle soluzioni giuridicamente date, e, dall’altro, la necessità di contrastare le disuguaglianze e le disparità tra territori. E ciò proprio per la semplice ma fondamentale considerazione secondo cui «le differenze territoriali quando hanno un impatto sui diritti degli individui possono essere accettate solo fino ad una certa soglia» (Auby, De Donno 2023, 7).
Conseguentemente, sarebbe ormai la stessa dialettica tra uguaglianza formale e sostanziale, tra uniformità e differenziazione a richiedere soluzione normative giuste, ispirate cioè da principi di giustizia ed equità e dalla conseguente esigenza di ricercare un equilibrio o, più spesso, un riequilibrio tra tutti i territori (Lerique 2023, 102).
Sicché, in definitiva, diventa compito del diritto pubblico misurare con precisione le differenze e le disuguaglianze territoriali individuando i necessari meccanismi correttivi e perequativi, rafforzando la stessa cooperazione e solidarietà inter-istituzionale, nel quadro, fra l’altro, di una compiuta attuazione dell’art. 119 Cost. (Rivosecchi 2022) e di un reale slancio delle stesse politiche di coesione dell’UE.
Del resto, all’interno di un sistema policentrico paritario delineata nel novellato art. 114 Cost. (Pizzetti 2001; Merloni 2002), era, fra l’altro, proprio a relazioni improntate sul rispetto del principio di leale collaborazione tra tutti gli enti costitutivi della Repubblica che, all’indomani della riforma costituzionale del 2001, si era inteso consegnare lo stesso obiettivo della realizzazione dell’interesse nazionale, al fine di definire un sistema di governo di carattere non più dualista e competitivo, ma di tipo integrato e cooperativo, in cui sulla contrapposizione dialettica tra i vari livelli (e gli interessi di cui sono portatori) prevalgano i raccordi e gli strumenti della cooperazione inter-istituzionale (Tubertini 2021).
Cosicché, in definitiva, a fronte di un intreccio di livelli di governo, di enti e relazioni, di interessi e funzioni e, al contempo, di imprescindibili esigenze unitarie è anche agli stessi principi di unità, solidarietà e coordinamento che occorrerebbe far riferimento (De Donno 2022).
A ben riflettere, questa impostazione – qui solo sommariamente tratteggiata – trova chiaramente eco nella sentenza n. 192, ove la Consulta nell’interpretare e declinare, appunto, ex parte populi tutti i principi costituzionali sin qui richiamati e nello stabilire in maniera sistematica un collegamento tra gli stessi ha puntato a definire una “nuova” architettura istituzionale e delle stesse relazioni inter-istituzionali nello Stato regionale italiano in vista del raggiungimento del bene comune e del benessere delle persone.
Se così è, il disegno istituzionale tracciato in Costituzione e ribadito in questa pronuncia dalla Corte richiederebbe ormai con estrema urgenza «un sistema complessivo bilanciato e credibile tra un centro capace di tracciare gli indirizzi strategici presidiando i beni indivisibili e garantendo il rispetto delle regole del gioco, a cominciare dal rispetto degli impegni assunti, e un sistema delle autonomie territoriali espressione del pluralismo istituzionale e sociale in grado di declinare le diverse politiche, dotato dei necessari strumenti per assicurare adeguatezza ed efficacia alla propria azione, pienamente responsabile verso il Paese e verso le proprie comunità delle risorse utilizzate e dei risultati raggiunti.
La strada è quella, impegnativa per tutti, tracciata dall’articolo 5 Cost. e ribadita dalla Corte nell’indicare i principi di riferimento: il resto appartiene ai tanti passi necessari a percorrerla» (Cammelli 2025).
Riflessioni conclusive. Quale lezione per le riforme locali?
E quali, allora, sono i passi da compiere? Quale la lezione che, in definitiva, i legislatori statale e regionale dovrebbero tenere a mente dopo questa pronuncia?
Tenuto conto dello specifico angolo prospettico da cui muove questo scritto – ossia il possibile impatto della sentenza n. 192 sulle future riforme locali – va da sé che la prima ricaduta concreta riguarderà inevitabilmente gli assetti istituzionali, il riparto delle funzioni amministrative e, con esso, il nodo, ancora tutto da sciogliere, delle risorse da assegnare agli enti locali.
Come noto, sul riordino istituzionale e funzionale intervengono, da un lato, il Testo unificato per la riforma delle Province e delle Città metropolitane che giace da quasi due anni presso la Commissione affari costituzionali del Senato, e, dall’altro, il disegno di legge delega per la revisione del TUEL.
Quanto, in particolare, a quest’ultimo, nell’ultima versione sino ad ora ufficializzata – risalente all’agosto del 2023 – gli artt. 2 e 3 preannunciano un’imponente revisione nella distribuzione delle funzioni di Comuni, Province e Città metropolitane, che riguarderà non solo l’individuazione delle funzioni fondamentali di competenza dello Stato e, quanto alle concrete modalità organizzative, delle stesse Regioni, ma anche le c.d. “funzioni ulteriori” e quelle “delegate”, su cui saranno chiamati ad intervenire, di nuovo, anche i legislatori regionali.
Proprio il disegno di legge delega fa ossequioso riferimento ai principi di autonomia e del decentramento amministrativo, di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; il suo primo articolo si apre con un solenne omaggio al principio di unità e indivisibilità della Repubblica, alla coesione sociale, territoriale e ordinamentale, e al benessere delle comunità di riferimento.
Va da sé che, dopo la sentenza n. 192, questi principi e gli stessi criteri direttivi generali della delega dovranno essere interpretati e, soprattutto, attuati anche tenendo presente gli altri principi enunciati dalla Corte a cominciare da quelli di equità, solidarietà, leale collaborazione e responsabilità. E analogo caveat andrà rivolto anche al legislatore regionale, specie quando, autonomamente o in attuazione della riforma nazionale, intenderà rivedere il proprio sistema amministrativo regionale e locale.
Il riferimento, con ogni evidenza, va innanzitutto alla prioritaria necessità di intervenire sull’assetto degli enti intermedi, delle Province e delle stesse Città metropolitane.
Se perciò si volesse ricavare una prima lezione dalla pronuncia qui in commento, essa andrebbe sintetizzata nell’appello a che il futuro disegno dell’area vasta rifugga da ogni forma di pura rivendicazione identitaria e da ogni soluzione di omologazione istituzionale tra Province e Città metropolitane, da cui deriverebbero questioni persino più problematiche già messe in evidenza, in realtà, dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 240/2021.
Come del resto è stato osservato, ridurre ad uniformità sul piano delle funzioni amministrative e della stessa forma di governo Province e Città metropolitane – come punta a fare il Testo unificato – sarebbe «non solo miope ma [appunto] anche contrario all’impianto costituzionale», che, facendo menzione distinta dei due enti, «di certo intende promuovere una differenziazione virtuosa che non lascia spazio a gelosie ingiustificate». Sicché l’introduzione dell’elezione diretta non solo per le Province ma anche per le Città metropolitane svuoterebbe di senso queste ultime, con un ritorno «da uno schema (forzatamente) cooperativo a uno (naturalmente) competitivo, antagonista» (Donati 2023, passim) esattamente contrario agli indirizzi espressi dalla Consulta anche con la sentenza n. 192/2024.
Sul piano del riordino funzionale, sarebbe ragionevole avviare perciò un mirato processo di ricognizione dell’attuale riparto di competenze tanto da parte dello Stato quanto delle Regioni, sì che, a dieci anni dalle leggi regionali di riordino delle funzioni non fondamentali delle Province, possa procedersi ad una verifica concreta di tutte le inadeguatezze e criticità riscontrate sino ad ora a tutti i livelli (regionale, intermedio e comunale) e, dunque, in base a non sproporzionate valutazioni, giungere alla possibile allocazione di nuove funzioni anche a favore delle Province. Come del resto è stato affermato da tempo, «la Costituzione impone che le funzioni amministrative siano attribuite ad amministrazioni (ad intere categorie di enti distribuiti in modo da coprire l’intero territorio nazionale) che siano effettivamente in grado di svolgerle. Questa effettiva capacità non può essere presunta dal legislatore, deve essere costantemente verificata e se, in alcuni casi, le condizioni di effettività non ci sono, le amministrazioni vanno accompagnate, aiutate, fino a garantire la capacità effettiva di svolgimento di tutte le funzioni attribuite. È [questo] il principio di adeguatezza, introdotto, insieme a quelli di sussidiarietà e differenziazione, dalla riforma costituzionale del 2001» (Merloni 2018, 85).
E, allora, dovrebbero essere precisamente i principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza a guidare, almeno questa volta, il riordino dell’assetto funzionale degli enti locali. D’altra parte, un riordino mirato e puntuale del solo livello di area vasta rischia di compromettere equilibri amministrativi e territoriali spesso labili e precari, di alimentare conflitti istituzionali con le Regioni e gli stessi Comuni e financo di ingenerare forme di confusione nei ruoli, specie in relazione alle Città metropolitane e alle stesse Unioni di comuni. Per quanto, infatti, le Province abbisognino di un rafforzamento ormai davvero non più rinviabile, non va dimenticata la condizione di debolezza in cui si trovano anche tutti gli altri enti locali.
Anche per queste ragioni, allora, non andrebbe sottovalutata la seconda lezione ricavabile dalla sentenza n. 192, riguardante esattamente la forte valorizzazione dei principi di equità, solidarietà, leale collaborazione e responsabilità.
Una simile attenzione manifestata dalla Corte, a nostro modo di vedere, dovrebbe avere un impatto significativo su tutte le relazioni inter-istituzionali, tra Stato e Regioni, certamente, ma anche tra queste e gli enti locali e poi, ancora, tra questi ultimi.
Di qui una spinta ancora maggiore, di nuovo a livello locale e di area vasta, verso la valorizzazione anche di nuove forme di cooperazione inter-istituzionale, oltre le stesse soluzioni ormai insoddisfacenti delle Unioni e delle convenzioni tra Comuni.
A ben vedere, una direzione di questo tipo è già visibile proprio nel disegno di legge delega per la revisione del TUEL, e, segnatamente, all’art. 2, comma 1, lett. g ed m, che richiamano rispettivamente il Governo alla «valorizzazione di forme di avvalimento e deleghe di esercizio delle funzioni amministrative mediante intese e convenzioni tra gli enti territoriali, nonché valorizzazione e incentivazione delle forme associative tra enti locali, con particolare riferimento alla innovazione ammnistrativa, alla transizione digitale, alla salvaguardia e sicurezza nei territori e alla gestione integrata delle risorse a fini di risparmio, tutela ecologica e ambientale», e, quindi, alla «previsione di meccanismi istituzionali e relazioni tra gli organi di governo di Comuni, Province e Città metropolitane, in modo da assicurare l’equilibrio di funzioni e responsabilità tra gli organi dell’ente locale, la celerità e la semplificazione nelle decisioni amministrative».
Si tratta, a nostro modo di vedere, di disposizioni che potrebbero costituire la base giuridica di un differente modello di governance territoriale, da sviluppare secondo un approccio di tipo funzionale e cooperativo, invero già diffuso in alcuni Paesi del Nord Europa e promosso di recente anche a livello europeo con l’adozione della nuova Territorial Agenda 2030. A future for all places (De Donno 2024).
Configurabile come una conurbazione policentrica, questa nuova forma di governance territoriale si fonda, in particolare, sull’individuazione di ambiti ottimali di area vasta, eventualmente anche su base infra-regionale, legati ai flussi economici e alla mobilità e caratterizzati dalla presenza di più poli urbani attrattivi dello sviluppo. A questo tipo di aree urbane funzionali occorre dunque correlare capacità istituzionali e amministrative di tipo flessibile, e funzionali alla messa in rete di infrastrutture e servizi comuni a vantaggio di aree urbane e rurali, per tale via messe in relazione.
Si tratterebbe, in buona sostanza, di consentire la realizzazione di una rete urbana tra più enti locali, in grado di assicurare, in una prospettiva redistributiva ma anche compensativa e di complessivo riequilibrio territoriale delle dotazioni e dei servizi, la stessa integrazione tra aree differenti, e, per tale via, la solidarietà e la coesione tra enti intermedi, Comuni capoluogo, altri poli urbani, centri medi e insediamenti minori. Ed essa può essere resa possibile tramite esattamente intese, accordi, convenzioni, uffici comuni, organi di coordinamento, enti in forma societaria per la gestione dei servizi pubblici, e quindi forme di avvalimento e di delegazione di funzioni amministrative, secondo una complessiva visione sussidiaria, integrata e inclusiva dei territori.
Del resto, com’è noto, proprio tramite la valorizzazione della cooperazione inter-istituzionale è possibile preservare le stesse esigenze – richiamate dal d.d.l. – del decentramento amministrativo, della sussidiarietà, dell’adeguatezza e della differenziazione, saldandole, al contempo, ad un metodo quanto più possibile ordinante ed unificante, e per ciò stesso semplificante dell’azione pubblica di governo del territorio, necessariamente plurale e per essenza complessa.
Si tratta, come si nota, di un modello che porterebbe ad ulteriore sviluppo quello già delineato nell’art. 1, comma 89 della Legge Delrio e già fatto oggetto di prime applicazioni e sperimentazioni da parte di alcune Regioni, come la Lombardia (con le c.d. zone omogenee) e la stessa Emilia-Romagna (con le c.d. aree vaste interprovinciali).
Il salto di qualità e di reale innovazione, adesso, dovrebbe essere rappresentato dall’implementazione anche di questo nuovo modello, nel solco di una nuova politica di coesione infra-regionale tutta convintamente da attuare ex parte populi.
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Abstract: Con il contributo ci si prefigge di fornire alcune riflessioni sulla sentenza n. 192/2024 della Corte costituzionale andando oltre le questioni più strettamente afferenti al regionalismo differenziato. Muovendo dall’analisi della premessa alla motivazione in diritto della pronuncia, nell’articolo si formulano pertanto alcune considerazioni sulle possibili lezioni che lo Stato e le Regioni potrebbero ricavarne, in vista dell’ormai fin troppo attesa riforma delle autonomie locali.
Parole chiave: regionalismo differenziato; Corte costituzionale; riforme locali.
The lessons of the Constitutional Court in its judgment No. 192/2024. What lessons for local reforms?
Marzia De Donno
Abstract: The contribution aims to provide some reflections on sentence no. 192/2024 of the Constitutional Court, going beyond the issues more strictly pertaining to differentiated regionalism. Starting from the analysis of the preamble to the motivation of the pronouncement, the article therefore formulates some considerations on the possible lessons that State and Regions could draw from it in view of the now all too long awaited local reform.
Keywords: differentiated regionalism; Constitutional court; local reforms.