Dove va il regionalismo italiano. Considerazioni su differenziazione, amministrativizzazione, sussidiarietà / Enrico Carloni
IDF, 1/2025
Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università di Perugia
Fortuna e limiti del principio di differenziazione
Ponendo un punto di arresto, forse definitivo, se non al regionalismo differenziato certo ad una sua declinazione quale strumento per la complessiva ridefinizione dell’equilibrio tra autonomia e unità nella Repubblica, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 192 del 2024, segna uno spartiacque nella riflessione intorno al principio di differenziazione, che proprio nel meccanismo dell’art. 116, c. 3, trova una delle sue massime manifestazioni. Il principio di differenziazione viene posizionato, dalla Corte nel centro più sensibile dei valori costituzionali, là dove dispiegando le sue potenzialità si pone in relazione con i principi di uguaglianza e di unità, ma in ragione di questo è, forse inevitabilmente, riportato, in termini operativi, a congegno di tipo eccezionale, da utilizzare con cautela.
Il tema della differenziazione, nel suo rapporto con l’uniformità, attraversa il sistema istituzionale e la forma di Stato italiana, definendo, come ora la Corte ci mostra con chiarezza, l’equilibrio di fondo tra il principio di autonomia e quello di unità, tra le esigenze di uguaglianza intesa ora come adeguatezza ora come parità dei diritti sul territorio nazionale. Come chiarisce la Corte, è manifestazione specifica di queste tensioni e di questi principi la disciplina costituzionale del regionalismo differenziato contenuta nell’art. 116, co. 3, della Costituzione, ma nella consapevolezza, che esiste “un trade-off tra autonomia regionale e eguaglianza nel godimento dei diritti, rispetto al quale deve essere trovato un ragionevole equilibrio che permetta di ottenere, attraverso un’adeguata allocazione delle funzioni e idonei meccanismi correttivi delle disparità, i vantaggi dell’autonomia territoriale senza pagare un prezzo elevato in termini di diseguaglianze”. La differenziazione regionale è dunque al centro delle tensioni che attraversano il testo costituzionale, è crocevia dei suoi valori, ma proprio per questo esce ridimensionata dalla decisione della Corte costituzionale: toccando nervature portanti della trama costituzionale, richiede di essere calibrata con cura, secondo equilibri da definire volta per volta considerati i diversi interessi in gioco, senza potersi proporre come soluzione generalizzabile. Come pure, a livello politico, si sarebbe da molte parti voluto.
Considerati i valori in gioco, vanno modulati entro queste coordinate complessive tutti gli sviluppi attuativi di questa previsione, che devono tendere a ricercare il migliore equilibrio tra le diverse esigenze “in concreto” (tenuto conto degli specifici problemi che attraverso l’autonomia come differenziazione si intende governare): se ne ricava in particolare che la differenziazione non “è uno spazio libero”, utile ad “armare” regioni alla ricerca di maggiori compiti politici in contrapposizione con l’uniformità statale, ma funzionale alla risposta differenziata, particolare, a specifici problemi. La stessa differenziazione è chiamata a farsi carico delle esigenze dell’unità, e l’attuazione del regionalismo differenziato non è uno “strappo”, un “fuga in avanti” (da compensare con dinamiche uguali e contrarie di centralismo e “gerarchia”, come forse si vorrebbe nel quadro del c.d. “premierato”): ogni processo di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., dovrà esso stesso tendere a realizzare un punto di equilibrio tra eguaglianza e differenze.
La portata “specifica” del meccanismo di differenziazione
Mostrato il valore sistemico della differenziazione, è forse inevitabile ricavarne il corollario della sua specificità ed eccezionalità. Era chiara l’aspirazione, di alcune regioni e di alcuni partiti, a farne un grimaldello per il rafforzamento (ma forse meglio, il rilancio) del regionalismo “ordinario”. La Corte chiarisce che questa strategia è inattuabile: il regionalismo differenziato esce dalla sentenza n. 192, dunque, inevitabilmente ridimensionato, quantomeno nelle sue aspirazioni.
Sul punto, l’approdo della Corte è ampiamente condivisibile. L’art. 116 ha previsto la possibilità di specifiche forme particolari di autonomia, relative a “materie” (rectius “funzioni”, ci dice ora la Corte) da prendere nell’elenco di quelle concorrenti e di alcune esclusive statali: una possibilità che logicamente, e testualmente, non sembrava consentire anche di “pescare l’elenco”, vale a dire di qualificare la nuova autonomia regionale attingendo all’intero menù.
Un esito, quest’ultimo, cui invece si rivolgeva la riforma, senza ricercare quella migliore corrispondenza tra assetto funzionale e specifiche caratteristiche ed esigenze di ciascuna regione, che si poneva, ed ora più chiaramente è posta dalla Corte, come ratio del meccanismo. Per regioni qualitative ma in primo luogo quantitative (l’entità delle funzioni, la loro importanza, l’accesso “per gruppi di regioni” al regionalismo differenziato, la ulteriore richiesta di differenziazione “per imitazione” da parte di altre regioni ancora), la legge “Calderoli” restituiva non più l’immagine di regioni singolarmente differenziate, ma quella di uno “Stato differenziato”. Con un effetto, frenato ora dalla Corte, di una, possibile, disarticolazione della trama unitaria statale, con uno Stato chiamato ad operare per spezzoni, “a stralcio”, in una serie crescente di ambiti sia di legislazione che di amministrazione. Con il rischio di inibirne l’azione politica e programmatoria, e non ultimo baricentrica, e con questo la capacità di corrispondere in termini complessivi alla missione che l’art. 3.2 Cost., prima ancora dell’art. 117, gli ha affidato nell’ordinamento repubblicano. Questa prospettiva è ora chiusa dalla Corte costituzionale. Né, al pari, è percorribile oltre misura l’idea di un sistema di territori in competizione: quello italiano, come afferma ora la Corte, “non è un “regionalismo duale” in cui tra una regione e l’altra esistono delle paratie stagne a dividerle […] piuttosto, è un regionalismo cooperativo” (pt. 4 del Considerato in diritto).
L’attuazione dell’art. 116, c. 3 non può e non deve essere il canale per riscrivere il Titolo V, e quindi ridefinire in termini complessivi l’equilibrio nella stessa forma di Stato, ma va ricondotto nel suo solco, di strumento per l’accesso a condizioni di autonomia differenziate in quanto specifiche. E, di converso, come rimarca la Corte, la stessa possibilità, frutto del 116, di superare l’uniformità per valorizzare le potenzialità insite nel regionalismo italiano “non può essere considerata come una monade isolata” (di nuovo pt. 4 del Considerato in diritto).
Il regionalismo allo specchio
Proprio la lettura sistemica che propone la Corte, d’altra parte ineludibile, consente di tornare sul regionalismo italiano nel suo complesso. Non mancano, da tempo, letture critiche rispetto all’evoluzione che il sistema ordinario ha conosciuto nel (quasi) quarto di secolo che ci separa dalla riforma del Titolo V: la sentenza permette di tornare sul disegno complessivo, da un lato per gli spunti contenuti nella sentenza, dall’altro per il fatto che, sgombrato il campo dalla prospettiva del regionalismo differenziato, è forse possibile tornare a riflettere dei problemi che caratterizzano il “regionalismo dell’uniformità”.
Riportandoci al sistema di regionalismo ordinario, sia pure aperto a differenziazioni se calibrate e giustificate, ma tutte da costruire, la sentenza ci riconduce inevitabilmente a fare i conti con lo stato della Repubblica delle autonomie. Nel far questo inevitabilmente ci riporta al disegno che ricaviamo, in modo però sempre più appannato, dal testo costituzionale e quindi dal Titolo V; in questo, la decisione della Consulta ci conduce a ricercare la chiave per riprendere il filo del regionalismo non in soluzioni esterne (siano esse di riforma costituzionale o di aggiramento e riscrittura del testo attraverso meccanismi diversi), ma all’incrocio tra le disposizioni costituzionali e la loro attuazione, nella legislazione e nella vita istituzionale di questo paese.
In questo percorso, non può più ignorarsi, distratti da tentativi di riforma o dal ricorso a soluzioni diverse, la distanza che oramai è divenuta insostenibile tra modello costituzionale formale ed esperienza concreta del regionalismo italiano. Una presa d’atto che è, ancora, premessa necessaria per ricomporre il disegno architetturale della Repubblica: un disegno che si è perso nello sviluppo nella legislazione statale e regionale ma, va detto, non ultimo nella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale.
È in effetti proprio nella crisi del regionalismo, da intendere anzitutto come fallimento dell’idea di regioni di legislazione, che si può cogliere la ragione di fondo del tentativo di alcune regioni di posizionarsi su condizioni di nuova specialità, con un regionalismo ordinario dopato al limite di quanto il meccanismo del terzo comma del 116 potesse consentire. La differenziazione regionale è stata, in effetti, un tentativo, estremo e fuori misura, di rilancio da parte dei territori, prima ancora che da parte delle autonomie, più vitali. Un rilancio che non a caso ha guardato al meccanismo contenuto nell’art. 116, sulla scorta di una dinamica diffusamente presente nello scenario comparato, nel quale si assiste a spinte alla ricerca di livelli maggiore autonomia da parte di specifici enti territoriali proprio nel momento in cui i sistemi nazionali sono caratterizzati da dinamiche di stampo centralistico ed uniformante. Senza voler ricondurre il dibattito al bivio “tra centralismo e secessione” che è presente in alcune esperienze di più forte regionalismo in Europa, è evidente che sono proprio i territori, e gli enti territoriali, più “forti” ad accettare meno il ritorno di dinamiche di riconduzione “in alto e al centro” dell’equilibrio dei rapporti tra Stato e autonomie. Così evidentemente è stato nella oramai sostanzialmente naufragata stagione dell’attuazione del regionalismo differenziato in Italia.
La regione come ente di amministrazione
Regioni che, in Italia, hanno solo apparentemente beneficiato di alcune dinamiche di riforma, ma che a ben vedere hanno in parte perso il proprio senso complessivo proprio grazie a queste: la per più versi problematica riforma operata a partire dalla legge Delrio, n. 56 del 2014, attraverso lo “svuotamento” delle province, ha condotto ad un rafforzamento, sul versante delle funzioni amministrative, delle regioni, che pure in modo diverso hanno approfittato di questa “opportunità”.
Questo ha però portato con sé una (potenzialmente esiziale) perdita di prospettiva normativo-programmatoria da parte delle regioni: la c.d. “amministrativizzazione” dei maggiori enti territoriali, unita al rafforzamento del ruolo uniformante ed unitario dello Stato di cui si è detto e che ha trovato innumerevoli conferme nella legislazione e soprattutto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, ci consegnano uno scenario nel quale la vitalità “politica” regionale, al di là di un certo protagonismo dei “governatori” sulla scena politica nazionale, è apparso negli anni recenti sempre minore. Una perdita di visione compensata da una crescita di peso istituzionale sul versante dell’amministrazione: l’evoluzione ci consegna regioni “pesanti”, sempre più pensate come enti ed “hub” di tipo gestionale, a partire dalla sanità.
Di fronte a questo destino di “province più grandi” alcune regioni hanno manifestato un sussulto di orgoglio ed una ritrovata energia, o più semplicemente fame di ulteriori funzioni, che le ha spinto in qualche modo a volersi “distinguere” dal resto del sistema regionale. Alzando lo sguardo anche verso la condizione di dorata specialità delle tradizionali regioni a statuto speciale. Proprio il ricorso a soluzioni di differenziazione non solo particolarmente ampia, ma omogenea (si può dire, paradossalmente, “uniforme”), ha d’altra parte mostrato bene la torsione impressa al meccanismo del regionalismo differenziato, e quindi avvalorato a maggior ragione la sua censura da pare della Corte costituzionale.
Non è questa la sede per soffermarci sui numerosi problemi che sarebbero derivati dal completamento del percorso attuativo, specie per la tenuta dell’impianto unitario e solidaristico della Repubblica. Né per discutere sui nodi irrisolti che lo slancio riformatore tendeva a sottovalutare, a partire da quello relativo alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni nelle diverse materie e con riferimento alle diverse funzioni.
Interessante può essere però leggere nel tentativo, ora naufragato, le tracce di una certa idea di “regione”, che non pare uscire smentita dalla sentenza della Corte costituzionale e sembra attraversare con una certa continuità i passaggi pure tra loro contraddittori che hanno caratterizzato lo scorcio più recente del regionalismo italiano.
Si poteva ben cogliere, nella legislazione di attuazione del 116, una costante “confusione” tra competenze legislative e competenze amministrative. Per quanto la Costituzione posizionasse espressamente l’art. 116, c. 3, nel quadro della differenziazione normativa, ad intendere la possibilità di ampliamento dell’assetto di competenze legislative regionali previsto dall’art. 117, proprio l’idea di “differenziazione” giustificava spazi interpretativi attenti ad integrare nel “pacchetto” delle ulteriori forme di autonomia anche funzioni amministrative. In uno scenario che si immaginava di parallelismo (tale che la funzione legislativa avrebbe portato con sé anche competenze amministrative); già il processo attuativo aveva mostrato però una dinamica di tipo diverso, nella quale il quale il contenuto della competenza legislativa “piena” attribuita alle regioni emergeva anzitutto dal destino delle funzioni amministrative e dei relativi apparati (o quantomeno delle corrispondenti risorse) individuati come oggetto di trasferimento.
In un percorso, dunque, di potenziamento regionale inteso spesso come ulteriore percorso di amministrativizzazione ed “appesantimento”.
Se il consenso e la legittimazione passano, per tutti i livelli istituzionali, sempre più dal rapporto con gli interessi frutto dell’esercizio di funzioni amministrative, le regioni hanno bisogno (e richiedono) funzioni amministrative più centrali e strategiche. Questa dinamica non esce sconfessata dalla sentenza della Corte. In effetti, il disegno complessivo entro cui si inserisce l’azione delle regioni, esce piuttosto confermato, anche se non rafforzato, dalla sentenza n. 192, sembra ribadire la prospettiva di amministrativizzazione delle regioni, alla ricerca di un ruolo che non pare poter (e voler) essere quello di attori di differenziazione normativa e protagonisti di forti caratterizzazioni in termini politici su base territoriali.
La sussidiarietà da principio autonomistico a paradigma centralistico
In un bel libro di qualche anno addietro, Daniele Donati ci ha parlato del “paradigma sussidiario”, ad intendere lì la portata e le implicazioni del principio di sussidiarietà nella sua declinazione “orizzontale”. Di paradigma sussidiario può forse nuovamente parlarsi, alla luce della sentenza n. 192, ma in una diversa prospettiva e da una differente angolazione: in un discorso, calato sul rapporto tra gli enti costitutivi della Repubblica, che segue anzitutto le coordinate della sussidiarietà c.d. “verticale”, di cui alla prima parte dell’art. 118 della Costituzione. Ma lo fa ora in modi, e con una direzione, che non sembra pienamente coerente con il disegno definito dalla riforma del 2001. La Corte, coronando qui una giurisprudenza tanto corposa quanto ricca e creativa, sembra voler muoversi con una rinnovata libertà nella trama costituzionale, ricavandone una lettura tanto ampia quanto flessibile e, in ultima istanza, bonne a tout faire, della sussidiarietà (ancorché da considerare ex parte populi).
Nella sentenza si coglie bene la maturazione, e trasfigurazione, di un principio di sussidiarietà che, abbandonati i più chiari legami con il principio di prossimità, emerge nella forma della adeguatezza intesa come, al contempo, “l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro distribuzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione”.
A colpire non è tanto l’estensione della nozione, e forse neppure la sua flessibilità specie allorché la Corte coglie la sussidiarietà in un continuum che, avendo evidentemente a baricentro lo Stato, si modula nella direzione degli enti territoriali (dove però, a tenore del 118, è invece meccanismo ascendente a partire da un principio di generale competenza locale, e quindi da un favor per la prossimità) come nella direzione dell’Unione europea. Piuttosto, è evidente (ma non per questo del tutto convincente) la scelta della Corte di disancorare pienamente, seguendo un percorso avviato a partire dalla sentenza 303 del 2003, il principio di sussidiarietà come criterio di allocazione di funzioni, dall’art. 118 (e quindi dalle funzioni amministrative e semmai per tramite di queste alle funzioni legislative), consentendogli di muoversi senza esitazioni tra riparto di funzioni legislative e/o amministrative. In una confusione tra funzioni amministrative (di cui all’art. 118) e materie (o meglio, come chiarisce la Corte, funzioni anch’esse, indifferentemente e spesso contemporaneamente legislative ed amministrative) (di cui all’art. 117), che lascia spaesati ma riporta la chiave complessiva del disegno alla responsabilità del Parlamento (nel momento, peraltro, della sua più evidente subalternità al Governo) ed in ultima istanza alla stessa Corte costituzionale. In uno scenario nel quale la sussidiarietà emerge con crescente chiarezza come risorsa del mai perduto “interesse nazionale”.
Il discorso merita sicuramente di essere meglio articolato, ma non può tacersi del fatto che il combinarsi della flessibilità del principio, della sua pervasività, del suo muoversi indifferentemente e spesso contemporaneamente sul piano legislativo ed amministrativo, della sua sensibilità alle “crisi”, in ultima istanza del suo operare di default a vantaggio del centro (come è dimostrato esemplarmente dal pt. 4.2.1 del considerato in diritto, dove le ragioni del centro sono tante e tali che viene da chiedersi se vi sia ancora spazio per una sussidiarietà che si moduli non marginalmente a livello locale), finiscono in ultima istanza per produrre un effetto di ulteriore riscrittura in senso centralistico del sistema definito dalla riforma del Titolo V.
Abstract: Lo scritto riflette, sinteticamente, su una serie di nodi problematici che segnano l’attuale stagione del regionalismo italiano, alla luce dell’effetto e del contenuto della sentenza n. 192 del 2024 della Corte costituzionale relativa al c.d. “regionalismo differenziato”. Le questioni principali che vengono poste a tema attengono alla crisi del modello formalmente definito dal Titolo V della Costituzione, alla progressiva riduzione e vitalità della differenziazione normativa, alla connessa tendenza alla amministrativizzazione delle regioni. In questo quadro, lo scritto riflette sulla lettura che la Corte propone del principio di sussidiarietà e sulle sue implicazioni.
Parole chiave: Regionalismo; Differenziazione; Regionalismo differenziato; Sussidiarietà; Funzioni amministrative
Where Italian regionalism is going. Considerations on differentiation, administrativeisation, subsidiarity
Enrico Carloni
Abstract: The paper briefly reflects on a series of problematic issues that mark the current season of Italian regionalism in light of the effect and content of Constitutional Court sentence no. 192 of 2024 on so-called “differentiated regionalism”. The main issues raised concern: the crisis of the model formally defined by Title V of the Constitution; the progressive reduction and vitality of regulatory differentiation; and the associated tendency towards the administrativeisation of the regions. Within this framework, the paper reflects on the Court’s interpretation of the principle of subsidiarity and its implications.
Keywords: Regionalism; Differentiation; Differentiated regionalism; Subsidiarity; Administrative functions