Cronaca di una morte annunciata? Cosa rimane del regionalismo differenziato dopo la sentenza n. 192/2024 della Corte costituzionale / Tommaso F. Giupponi
Numero 1 2025 • ANNO XLV
Professore ordinario di Diritto costituzionale, Università di Bologna
Una decisione complessa e che rilegge l’art. 116 Cost. nel segno della “sussidiarietà”
La sentenza in questione, come è stato evidenziato da tutti i primi commentatori, rappresenta senza dubbio una pietra miliare nella giurisprudenza costituzionale in materia regionale, e questo per diversi ordini di motivi.
Prima di tutto, perché si tratta di una sentenza “normativa” e di sistema, in cui il Giudice delle leggi ha ricostruito (e in parte ridisegnato) l’ordinamento regionale italiano e i suoi principi ispiratori, in grado di indirizzare ogni successiva discussione sul nostro sistema di autonomie territoriali. In secondo luogo, perché si tratta di decisione (molto ampia) che ben manifesta tutte le virtualità decisorie della Corte costituzionale, affiancando dispositivi di annullamento a interventi di tipo manipolativo (aggiuntivo e sostitutivo), fino ad una rilevantissima serie di rigetti interpretativi. Da ultimo, perché è intervenuta direttamente su un tema, quello del c.d. regionalismo differenziato previsto dall’art. 116, terzo comma, Cost., che, da diversi anni, è al centro di accese polemiche politico-istituzionali, e ha vissuto diversi tentativi di attuazione.
Tuttavia, da più parti si era sottolineata fin da subito l’illegittimità costituzionale della l. n. 86 del 2024, sia sul piano più squisitamente procedurale (quali le procedure previste per la corretta attuazione delle previsioni costituzionali?), sia sul piano più propriamente sostanziale (che tipo di differenziazione emerge dalla disciplina legislativa in questione?). Le stesse modifiche intervenute nel corso della discussione parlamentare, poi, avevano sottolineato tutta la difficoltà di individuare un punto di mediazione interno alle stesse forze di maggioranza, con esiti normativi in molti casi di dubbia razionalità (oltre che di sospetta illegittimità).
Dunque, le premesse per un giudizio di illegittimità costituzionale di alcune delle previsioni oggetto dei ricorsi regionali erano abbastanza solide; la sent. n. 192/2024, però, sembra essere andata ben oltre, offrendo una lettura del regionalismo italiano che appare a tratti problematica, e arrivando sostanzialmente a “svuotare” lo stesso art. 116, terzo comma, Cost., che rischia ora di essere collocato su un binario morto.
Il suo impianto fondante, a ben vedere, appare significativamente condizionato dalla particolare valorizzazione del principio di sussidiarietà e della tutela delle esigenze unitarie (dietro le quali sembra celarsi l’interesse nazionale, sulla scia di quanto a suo tempo già affermato dalla discussa sent. n. 303/2003).
Secondo la Corte, infatti, l’art. 116, terzo comma, Cost. “consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano”, oltre il modello binario ordinarietà/specialità. Tuttavia, esso va letto nell’ambito della garanzia di unità e indivisibilità della Repubblica di cui all’art. 5 Cost., dal momento che l’accentuato pluralismo che caratterizza la nostra Costituzione “non porta alla evaporazione della nozione unitaria di popolo”, inteso come molteplicità di soggetti che convergono su un nucleo di valori condivisi che fondano una comunità politica con una sua identità collettiva, in cui rilevano la storia e l’appartenenza ad una comune civiltà, richiamate dal concetto stesso di Nazione (evocato dagli artt. 9, 67 e 98 Cost.).
Secondo la Corte, giustamente, la tutela delle esigenze unitarie spetta primariamente al Parlamento, in grado di ricomporre la complessità del citato pluralismo istituzionale e di farne un’adeguata sintesi. Tuttavia, giunta a questo punto, la Corte aggiunge alcune specificazioni relative alla nostra forma di governo la quale, funzionando “secondo la logica maggioritaria”, come “espressione dell’indirizzo politico della maggioranza e del Governo”, vede necessariamente nella sede parlamentare l’unica possibilità di un “confronto trasparente con le forze di opposizione” in grado di “alimentare il dibattito nella sfera pubblica”. […] Questo, conclude la Corte, nella consapevolezza che il Parlamento deve, inoltre, tutelare anche “le esigenze unitarie tendenzialmente stabili, che trascendono la dialettica maggioranza-opposizione”.
In questo passaggio, a dire il vero, sembra che la Corte affidi al Parlamento una duplice missione. In primis, alla luce del funzionamento del principio di maggioranza (più che “maggioritario”), la garanzia delle esigenze unitarie alla luce del circuito dell’indirizzo politico che lega espressione del voto popolare, maggioranza parlamentare e Governo della Repubblica. In questo senso, tuttavia, appare evidente come tale “interpretazione” delle esigenze unitarie risenta inevitabilmente del mutamento dell’indirizzo politico di governo, dovuto all’alternanza di differenti maggioranze parlamentari. Secondariamente, però, la Corte evidenzia la necessità che il Parlamento sia in grado di esprimere con continuità la propria visione anche in relazione a non ben definite “esigenze unitarie tendenzialmente stabili” (che rappresenterebbero, quindi, una sorta di nucleo duro all’interno delle già citate esigenze unitarie, in grado di superare i condizionamenti legati al mutamento dell’indirizzo politico di maggioranza, forse collegate a quello che una volta veniva evidenziato come indirizzo politico-costituzionale). Una tale ricostruzione, tuttavia, desta più di una perplessità, soprattutto in assenza di un sistema bicamerale in grado di rappresentare con continuità gli interessi delle autonomie territoriali al centro, e dove entrambe le Camere sono (e inevitabilmente saranno) sempre espressione del solo indirizzo politico di maggioranza.
Le materie potenzialmente trasferibili, tra esigenze unitarie e vincoli europei
Sulla base di queste premesse, nella sua (ri)lettura dell’art. 116, comma terzo, Cost., la Corte sembra operarne una significativa “riduzione”, in quanto espressione di un regionalismo che non può essere esclusivamente competitivo (pene il rischio di “disgregazione dell’unità nazionale”), ma deve necessariamente svilupparsi (anche nel processo di attuazione della differenziazione) secondo gli schemi del regionalismo cooperativo.
Questo appare evidente con particolare riferimento all’ampiezza costituzionalmente possibile della differenziazione, e cioè dal numero di materie potenzialmente delegabili alle Regioni ordinarie, rilette alla luce del principio di sussidiarietà verticale, ex art. 118, comma 1, Cost. Punto di partenza del ragionamento della Corte è, in particolare, una dei meccanismi di funzionamento del principio di sussidiarietà, e cioè l’adeguatezza. Secondo il Giudice delle leggi, infatti, la sussidiarietà esclude “un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato” (in relazione non solo alla specifica funzione, ma anche al contesto in cui avviene la scelta allocativa). Dunque, in base a tali premesse, la devoluzione di cui all’art. 116, comma terzo, Cost. “non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni, e non può riguardare intere materie”.
Secondo la Corte, anche alla luce di quanto stabilito fin dalla già citata sent. n. 303/2003, tale devoluzione può riguardare non solo funzioni amministrative, ma anche funzioni legislative, dal momento che il principio di sussidiarietà, formalmente riguardante il riparto delle sole funzioni amministrative, è stato dalla Corte “esteso” in qualche modo anche al riparto delle funzioni legislative attraverso la c.d. chiamata in sussidiarietà, a tutela di esigenze unitarie. E qui sembra palesarsi il rischio di un cortocircuito ulteriore: come può essere premessa coerente con le stesse finalità sottese alla disposizione costituzionale in commento, relative alla garanzia di forme più ampie di autonomia regionale, un meccanismo, come quello della “chiamato in sussidiarietà”, immaginato a suo tempo per riportare al centro materie di competenza regionale al fine di tutelare esigenze unitarie? L’eccezione del 2003, incardinata nell’art. 118 Cost., sembra ora divenire la premessa per il funzionamento a regime del diverso meccanismo di devoluzione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost. Se, però, questo è il ragionamento della Corte, in cosa si differenzierebbe il meccanismo dell’art. 118 Cost., corretto dalla citata giurisprudenza, dalla devoluzione di cui all’art. 116 Cost.? E in che modo evitare che singole materie possano, eventualmente, essere devolute anche per intero, attraverso un “adeguato” frazionamento delle singole funzioni che le compongono?
La lettura sistematica proposta dalla Corte, in ogni caso, sembra riscrivere lo stesso dato testuale, giungendo ad imporre un’articolata istruttoria procedimentale di cui non c’è alcuna traccia, anche alla luce dell’inevitabile discrezionalità politica relativa alla scelta dell’avvio della procedura e all’eventuale stipulazione dell’intesa. Come noto, infatti, il Giudice delle leggi (con accenni paternalistici) arriva ad imporre uno specifico modulo procedimentale, ispirato ai criteri di efficacia, efficienza, equità territoriale e responsabilità: “l’iniziativa della Regione e l’intesa previste […] devono […] essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”.
Esito di tale ragionamento è la sostanziale impossibilità, contrariamente a quanto espressamente previsto dall’art. 116, terzo coma, Cost., di devolvere funzioni relative a materie caratterizzate da esigenze unitarie particolarmente evidenti, anche alla luce di vincoli provenienti dall’ordinamento dell’Unione Europea (con particolare riferimento, tra l’altro, alla tutela della concorrenza). Ci sono materie, insomma, per cui sembra che l’istruttoria, con esito negativo, sia già stata svolta dalla Corte costituzionale stessa, anche se in modo sostanzialmente apodittico e non particolarmente motivato, dal momento che ci si limita a specificare che in questi casi “l’onere di giustificare la devoluzione […] divent[erebbe] particolarmente gravoso e complesso” per i protagonisti dell’intesa.
Tali conclusioni, in modo diverso e con differenti gradi di limitazione, vengono evocate in relazione al commercio con l’estero, alla tutela dell’ambiente, alla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, ai porti e agli aeroporti civili, alle grandi reti di trasporto e di navigazione, alle professioni, all’ordinamento della comunicazione, alle norme generali sull’istruzione.
In tutti questi casi, però, la Corte sembra operare una piena sovrapposizione tra i vincoli europei e la tutela di esigenze unitarie, come se, sempre ed automaticamente, all’affacciarsi di una limitazione derivante da regolamentazione UE derivasse automaticamente, sul piano interno, l’esigenza di soddisfare esigenze unitarie. Certo, è senz’altro vero che solamente lo Stato è responsabile verso l’Unione Europea del mancato rispetto o della violazione della normativa europea da parte delle Regioni; e non a caso, uno dei motivi che giustifica l’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo, ex art. 120, secondo comma, Cost. è il “mancato rispetto […] della normativa comunitaria”. Tuttavia, come ribadito anche dall’art. 117, primo comma, Cost., il rispetto del diritto UE è un vincolo che vale tanto per la legge statale quanto per quella regionale, motivo per cui non appare automatico che la presenza di vincoli sovranazionali impedisca la devoluzione di funzioni nell’ambito di materie espressamente previste dall’art. 116, terzo comma, Cost.
Quanto alle materie, infine, è formalmente salvata (ma di fatto svuotata) la distinzione tra materie LEP e no-LEP, che rappresentava una delle scelte fondamentali della l. n. 86 del 2024, ed era stata alla base anche del lavoro istruttorio svolto dall’apposito Comitato per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, nominato dal Presidente del Consiglio dei ministri nel marzo del 2023, e che ha presentato il suo rapporto finale nel gennaio del 2024. La legge in questione, infatti, subordinava espressamente la possibilità di devoluzione di funzioni nell’ambito di materie LEP alla previa individuazione, da parte dello Stato, dei relativi livelli essenziali. Prima di tutto, condivisibilmente, la Corte afferma con chiarezza la natura dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (ex art. 117, secondo comma, lett. m, Cost.), da intendersi non come livelli minimi di tutela (in relazione al nucleo essenziale incomprimibile di ciascun diritto fondamentale), ma come standard uniformi di tutela, da garantire su tutto il territorio nazionale, a garanzia del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Secondo la Corte, tra l’altro, questo sarebbe confermato anche dalla previsione, nell’ambito del già citato art. 120, secondo comma, Cost., di una specifica ipotesi di potere sostitutivo statale nei confronti delle Regioni “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”. Dunque, in sintesi, per il Giudice delle leggi “il nucleo minimo del diritto è un limite derivante dalla Costituzione e va garantito […] a prescindere da considerazioni di carattere finanziario”; mentre i LEP “sono un vincolo posto dal legislatore statale, tenendo conto delle risorse disponibili e ricolto essenzialmente al legislatore regionale e alla pubblica amministrazione”, la cui determinazione, in ogni caso, impone l’obbligo da parte dello Stato “di garantirne il finanziamento”.
Ebbene, a prescindere dalla suddivisione legislativa indicata, “nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come no-LEP, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”; se, invece, si volesse trasferire una funzione rientrante in una materia no-LEP, ma incidente su un diritto civile o sociale, “occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)”.
Gli strumenti normativi possibili: individuazione dei LEP, intesa e autonomia parlamentare
Sul piano delle fonti del diritto, invece, la decisione appare a tratti più convincente, a partire dalla stessa possibilità di approvazione di una legge di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost. Secondo la Corte, infatti, la circostanza che “una norma costituzionale non rinvii ad una legge non impedisce al legislatore di dettare norme attuative, naturalmente nel rispetto dei limiti costituzionali di competenza, posti a tutela sia dell’autonomia regionale sia dell’autonomia delle singole Camere”. Si deve trattare, in ogni caso, di norme di natura sostanzialmente procedurale, volte a “guidare gli organi competenti a svolgere il negoziato” e a garantirne “un più ordinato e coordinato processo di attuazione”.
Quanto alla delega legislativa prevista al fine della determinazione dei LEP, tuttavia, la Corte ne ravvisa la (macroscopica) illegittimità, in quanto delega sostanzialmente “in bianco”, in assenza di puntuali principi e criteri direttivi e, dunque, in violazione diretta dell’art. 76 Cost. A nulla vale il richiamo, da parte dell’art. 3 della l. n. 86 del 2024, delle disposizioni contenute nella legge di bilancio per il 2023, la quali (tra l’altro) prevedevano un procedimento di individuazione dei LEP del tutto differente, attraverso l’adozione di specifici d.p.c.m. Secondo la Corte, in ogni caso, l’illegittimità della scelta legislativa deriva anche “dalla pretesa di dettare contemporaneamente criteri direttivi – per relationem - con riferimento a numerose e variegate materie”. Infatti, “poiché ogni materia ha le sue peculiarità e richiede distinte valutazioni e delicati bilanciamenti, una determinazione plurisettoriale […] che non moduli tali criteri in relazione ai diversi settori, risulta inevitabilmente destinata alla genericità” (sul punto, vedi ora l’informativa sulla bozza di d.d.l. delega svolta dal Ministro Calderoli al Consiglio dei ministri del 13 marzo 2025).
Altrettanto netta appare la dichiarazione di illegittimità costituzionale della possibilità di aggiornare/modificare i LEP con d.p.c.m., alla luce del sostanziale stravolgimento della gerarchia delle fonti. Tale meccanismo, secondo la Corte, “risulta intrinsecamente contraddittorio e dissonante rispetto al sistema costituzionale delle fonti”, dal momento che prevede la modifica di un atto legislativo futuro ad opera di un atto sostanzialmente regolamentare, disponendo della forza dei futuri decreti legislativi di individuazione dei LEP, ancora non esistenti. Secondo il Giudice delle leggi, tale previsione individuerebbe il d.p.c.m. come una fonte sostanzialmente primaria, abilitata a modificare i futuri decreti legislativi per forza propria; tuttavia, “una fonte primaria non può creare una fonte con sé concorrenziale”, di fatto “duplicando” illegittimamente la delega legislativa già prevista. Sul punto, al di là dei concreti meccanismi oggetto del giudizio della Corte, va comunque segnalato che le materie di cui all’art. 117 Cost., comprese quelle di competenza esclusiva dello Stato, non individuano altrettante ipotesi automatiche di riserva di legge assoluta, ben potendo quindi immaginarsi, a seconda dei casi, una puntualizzazione tecnico/attuativa (o in parte anche integrativa) da parte della fonte secondaria.
Maggiormente complessa appare, invece, la conclusione della Corte circa la possibilità di modificazione del d.d.l. di recepimento dell’intesa da parte delle Camere, in occasione della discussione e approvazione del medesimo da parte del Parlamento (ex art. 116, terzo comma, Cost.). Non a caso, qui la prosa della Corte si fa più problematica, evocando la ratio stessa della disposizione costituzionale nella sua attuazione legislativa (art. 2, ottovo comma, della l. n. 86 del 2024), oltre che la disciplina del conseguente finanziamento delle funzioni trasferite, che tocca il cuore delle tradizionali competenze parlamentari.
Pur in presenza di un dato letterale definito non univoco, e in assenza di ogni specifica puntualizzazione da parte dei Regolamenti parlamentari, la risposta della Corte è netta, dal momento che “la legge di differenziazione è abilitata a derogare al riparto costituzionale di competenza, privando le Camere del loro ordinario potere legislativo, con riferimento ad una determinata Regione e a determinate funzioni. Inoltre, la stessa legge è deputata a disciplinare il finanziamento delle funzioni trasferite, incidendo sul cuore delle competenze parlamentari, cioè sulla gestione delle risorse pubbliche”. D’altronde, “l’interpretazione alternativa […] svuoterebbe il ruolo delle Camere, irrigidendo eccessivamente il procedimento di differenziazione, il quale “potrebbe chiudersi solo con l’approvazione o la bocciatura dell’intesa”.
Tuttavia, tale conclusione non appare del tutto convincente, soprattutto alla luce di quanto previsto dalle altre disposizioni costituzionali che prevedono (o prevedevano) procedure legislative atipiche e a volte sostanzialmente “concordate”, pur se in via di prassi (vedi il vecchio art. 123 Cost., in relazione ai vecchi Statuti regionali, ma anche l’attuale art. 8 Cost.). In ogni caso, è la stessa Corte a ricondurre il suo ragionamento al punto di partenza, laddove specifica che “naturalmente, essendo la legge di differenziazione caratterizzata da una condizionalità derivante dall’intesa, qualora le Camere intendano apportare modifiche sostanziali all’accordo concluso, esso dovrà essere rinegoziato tra il Governo e la Regione richiedente, il cui consenso è elemento essenziale della procedura”. Dunque, almeno apparentemente, forse un falso problema, dal momento che apportare modifiche all’intesa raggiunta non è che un altro modo di respingere l’intesa stessa, che quindi mai potrà essere sconfessata in via definitiva dal Parlamento.
Del tutto condivisibile, invece, appare la conclusione circa l’inapplicabilità dell’art. 116, terzo comma, Cost. alle Regioni ad autonomia speciale, non solo per evidenti motivi di ordine testuale, ma anche per la stessa “posizione” costituzionale delle Regioni speciali. Secondo la Corte, infatti, la disposizione costituzionale “è chiara nel riferirsi alle sole Regioni orinarie”, ma la questione centrale è il riferimento alla clausola di maggior favore di cui all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001). Tuttavia, secondo la Corte, “sussistono ragioni di ordine logico-sistematico che conducono ad escludere” che la norma costituzionale in questione possa applicarsi anche alla Regioni speciali. Infatti, “la procedura di specializzazione e di rafforzamento dell’autonomia di cui all’art. 116, terzo comma, Cost. non può essere considerata un caso di maggior autonomia ai sensi dell’art. 10” citato. Le forme di autonomia più ampie di cui alla clausola di maggior favore, infatti, sono esclusivamente “quelle attribuite direttamente dalla riforma del Titolo V alla generalità delle Regioni ordinarie”. Ciò, in ogni caso, vale anche a salvaguardare la forza normativa degli Statuti speciali, e del relativo procedimento di revisione, che risulterebbero sostanzialmente svuotati se ad essi si potesse affiancare la procedura di cui all’art. 116, terzo comma, Cost.; “nel contesto delle Regioni speciali, l’ulteriore specializzazione e il rafforzamento dell’autonomia devono essere scorrere sui binari della revisione statutaria e, entro certi limiti, delle norme di attuazione degli Statuti speciali”.
In conclusione
Dunque, una decisione che sembra essere incentrata più sul principale parametro costituzionale evocato dai ricorsi regionali, piuttosto che sull’articolato oggetto degli stessi, offrendo un’interpretazione riduttiva e fortemente correttiva dello stesso art. 116, terzo comma, Cost. Quanto alla l. n. 86 del 2024, formalmente in vigore, essa risulta però amputata di gran parte delle sue scelte normative più qualificanti, ponendo di fatto il percorso di attuazione dell’autonomia differenziata su un binario morto (almeno al momento).
Il cerchio “giurisprudenziale” sembra chiudersi, trasformando la morte annunciata in una sorta di delitto (o suicidio) perfetto, con la successiva sent. n. 10 del 2025, che ha dichiarato inammissibile il quesito referendario proposto sull’intera l. n. 86 del 2024 (non senza una qualche velata polemica con l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione). Nel dichiarare il quesito inammissibile per “oscurità sopravvenuta”, la Corte conferma il suo atteggiamento sostanzialmente paternalistico, arrivando alle citate conclusioni quasi esclusivamente alla luce della sua precedente decisione “demolitoria”, che viene significativamente riassunta, quanto agli effetti, per punti: a) trasversale ridimensionamento dell’oggetto di qualsiasi possibile trasferimento (solo specifiche funzioni e non già materie); b) paralisi – fino ad un futuro intervento del legislatore – dell’individuazione dei LEP; c) conseguente impossibilità di trasferire specifiche funzioni relative a “materie LEP”, nonché – per la stessa ragione – relative a materie “no-LEP”, là dove esse incidono su diritti civili e sociali; d) individuazione di un catalogo di materie nelle quali il trasferimento di funzioni è difficile da giustificare, tra cui due materie “no-LEP” (commercio con l’estero e professioni).
Insomma, secondo l’interpretazione autentica data dalla stessa Corte, “la sentenza n. 192 del 2024 ha eliminato gran parte del disposto normativo di cui alla l. n. 86 del 2024, incisa nella sua architettura essenziale, lasciando in vita un contenuto minimo”. Tale contenuto, tuttavia, è di difficile individuazione, dal momento che “quel che resta della legge dopo questa pronuncia […] è obiettivamente oscuro”, circostanza che si riflette sulla comprensibilità del quesito referendario da parte degli elettori.
Ridotta la legge a poco più di un simulacro, vi sarebbe quindi il rischio che il quesito referendario “si risolva in altro: nel far esercitare un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato”, con una “radicale polarizzazione identitaria sull’autonomia differenziata come tale, e in definitiva sull’art. 116, terzo comma, Cost., che non può essere oggetto di referendum abrogativo, ma solo di revisione costituzionale”.
Dunque, di fronte a tali premesse, il percorso di attuazione del regionalismo differenziato e la sua concreta agibilità politica risultano fortemente ipotecati e dal futuro quanto mai incerto.
Abstract: Il contributo analizza le principlai questioni sollevate dalla sent. n. 192 del 2024, che ha dichirato parzialmente illegittima la l. n. 86 del 2024 di attuazione dell’art. 116, terzo comma, Cost., ripercorrendone criticamente le argomentazioni e interrogandosi sul futuro del regionalismo differenziato italiano.
Parole chiave: Costituzione, Regionalismo Differenziato, Sussidiarietà, Lep, Corte CostituzionaleChronicle of a death foretold? What remains of differentiated regionalism after Constitutional Court ruling no. 192/2024 / Tommaso F. Giupponi
Abstract: The contribution analyzes the principlai issues raised by Sentence No. 192 of 2024, which declared partially illegitimate Law No. 86 of 2024 implementing Article 116, third paragraph, of the Constitution, critically reviewing its arguments and questioning the future of Italian differentiated regionalism
Keywords: Constitution, Differentiated Regionalism, Subsidiarity, Lep, Constitutional Court