Professore ordinario di Diritto amministrativo, Università di Ferrara.

In Italia, le riforme territoriali sono state molto spesso “reattive”, ossia introdotte in risposta a fenomeni congiunturali, e parziali, ossia concepite in assenza di una visione organica e sistemica delle autonomie. Quasi sempre gli interventi riformatori sono dettati da ragioni emergenziali e congiunturali, privi dalla necessaria visione sistemica che è richiesta alle riforme strutturali, e quasi sempre sono ispirati dalla finalità di generare risparmi economici.

Una strategia di questo tipo rischia di provocare squilibri territoriali, lacu- ne nella partecipazione e nella rappresentanza democratica e inefficienze nei servizi. Prova ne sia che, in molti ordinamenti che hanno seguito questa logica, le misure emergenziali di razionalizzazione territoriale sono state puntualmente rimesse in discussione una volta esaurita l’emergenza. La parabola della riforma delle province, approvata “in attesa” di una riforma costituzionale mai inveratasi, è un’eloquente dimostrazione del fenomeno.

Un vizio simile sembra colpire anche la riforma per il cd. regionalismo differenziato o asimmetrico, portata avanti dal Governo in carica in un clima di grande polarizzazione delle opinioni, ed approvata in tutta fretta all’uscita dall’emergenza pandemica sfruttando il sostegno di una solida maggioranza politica, in assenza di una visione ampia che abbracci il riordino territoriale nel suo insieme (ridisegno dell’area vasta, riforma del TUEL). Con la legge n. 86/2024, meglio nota come “legge Calderoli,” il Governo ha imboccato con decisione la strada della “legge generale di attuazione” della Costituzione, per una disciplina procedurale volta a garantire un processo attuativo più ordinato dell’art. 116, comma 3 Cost. Una scelta che, di per sé, non era vincolata, e che una parte della dottrina considera foriera di inutili elementi di complicazione nel sistema (Chessa, 2023).

Sullo sfondo di questa legge risalta la volontà di alcune Regioni ordinarie del Nord di ottenere risorse aggiuntive per garantire l’esercizio delle funzioni e l’erogazione dei servizi pubblici ad esse conferite. In modo speculare, alla base dell’opposizione al progetto di riforma si legge il timore che questo finanziamento aggiuntivo, legato alla maggiore autonomia di alcune Regioni ordinarie, produca una diminuzione delle risorse complessivamente disponibili per tutte le altre, con conseguente impossibilità di garantire la prestazione di servizi e funzioni essenziali al soddisfacimento dei diritti individuali nei territori non differenziati (Viesti, 2024).

Com’è noto, la legge n. 86/2024 è immediatamente finita sotto le lenti della Corte costituzionale a seguito del ricorso delle Regioni ordinarie Puglia, Toscana, Campania e dalla Regione a statuto speciale Sardegna, che l’hanno impugnata nella sua totalità e anche con riferimento a specifiche disposizioni. Nel pronunciarsi sulla legittimità di questa riforma, la Corte costituzionale ha colto l’occasione per una riflessione sistemica sul regionalismo italiano e, più in generale, sulla Repubblica delle autonomie, facendosi carico di quella visione ampia e organica che, da sempre, sembra mancare al nostro legislatore. Il principale merito della sentenza n. 192/2024 è aver riportato ordine nel confuso e incompiuto progetto regionalista, lanciato con l’approvazione della Costituzione repubblicana e rimaneggiato in profondità con la riforma del 2001. Soprattutto, l’intervento della Corte offre un prezioso contributo di ragionevolezza al dibattito sul regionalismo differenziato, che da anni lacera l’opinione pubblica: in questo senso, la sentenza n. 192/2024 è «probabilmente destinata a restare negli annali della giurisprudenza costituzionale come una pronuncia di portata storica» (Cheli, 2024).

Tuttavia, non sono poche le incertezze che continuano circondare il regionalismo differenziato, il cui futuro è tutt’altro che chiaro dopo l’intervento della Corte, anche con riferimento specifico al destino della (porzione di) legge Calderoli sopravvissuta alla scure del giudizio di costituzionalità. Basti dire che, nei giorni scorsi, il ministro Calderoli ha illustrato al Consiglio dei ministri un disegno di legge contenente la delega al Governo per la determinazione dei LEP (datato 17 febbraio 2025), contestualmente trasmesso in via informale alle Regioni. L’articolo d’esordio di questo disegno di legge ribadisce il meccanismo della delega legislativa per la determinazione dei LEP, recependo sul punto la richiesta della Corte costituzionale di una definizione analitica, funzione per funzione, degli stessi e limitandosi alle materie cd. LEP, con l’importannte esclusione della materia della tutela della salute (Tubertini, 2025).

Per cercare di orientarsi all’interno di questo quadro complesso e provare a immaginare la traiettoria del regionalismo italiano nel prossimo futuro, la Rivista “Istituzioni del federalismo” ha organizzato un seminario di studi presso la sede della Regione Emilia-Romagna, che si è gentilmente offerta di ospitare l’iniziativa. Al seminario hanno partecipato, come relatori, molti dei membri del Comitato scientifico e, come uditori qualificati, alcuni esponenti politici e dirigenti della Regione stessa, direttamente interessati dalle prospettive di riforma regionale. I contributi pubblicati in questo numero della Rivista rappresentano la rielaborazione degli interventi svolti al seminario, concentrati su singoli (uno o più) capi della sentenza n. 192/2024, al fine di consentire lo svolgimento ordinato dei lavori ed evitare sovrapposizioni tematiche.

Prima di ogni altra considerazione, credo sia utile partire dalla successione temporale degli eventi. La legge Calderoli viene approvata il 26 giugno 2024, con 172 voti favorevoli, 99 voti contrari e 1 astenuto, divenendo così legge della Repubblica. A distanza di poche settimane, quattro Regioni (Puglia, Campania, Sardegna e Toscana) impugnano il provvedimento di fronte al Giudice delle leggi, muovendo diverse censure al testo della l. 86/2024 nella sua totalità e anche con riferimento a specifiche disposizioni. A fine settembre, una richiesta di referendum abrogativo viene depositata presso la Cassazione, sostenuta da oltre un milione e mezzo di firme. Nel dicembre 2024, la Corte costituzionale rivolge una batteria di censure alla legge n. 86/2024, adottando una sentenza dal «carattere profondamente demolitorio» (così l’atto “di intervento” in giudizio della Regione Veneto). Un paio di mesi più tardi, dopo aver sostanzialmente scarnificato la legge sull’autonomia differenziata delle Regioni ordinarie, la Corte dichiara l’inammissibilità del referendum sull’abrogazione dell’intera legge Calderoli, per come sopravvissuta al vaglio di costituzionalità. In questo senso, la sentenza n. 10 del 2025 evidenzia che «l’impianto originario della legge n. 86 del 2024 è stato profondamente modificato dalla sentenza predetta (n.192 del 2024, N.d.A.), con interventi di tipo caducatorio, sostitutivo e additivo, nonché con decisioni interpretative di rigetto (…), lasciando in vita un contenuto minimo». Secondo la Corte, ciò che resta della legge originaria è difficile da individuare e poco chiaro, tanto che «L’elettore si verrebbe a trovare in una condizione di disorientamento, rispetto sia ai contenuti, sia agli effetti di quel che resta della legge n. 86 del 2024». Con la conseguenza che «tale disorientamento impedirebbe l’espressione di un voto libero e consapevole, che la chiarezza e la semplicità del quesito mirano ad assicurare», con il rischio che il referendum si risolva in «un’opzione popolare non già su una legge ordinaria modificata da una sentenza di questa Corte, ma a favore o contro il regionalismo differenziato».

Lasciando a margine l’opinabilità di una simile motivazione, che fa trapelare quantomeno una scarsa considerazione della capacità dei cittadini di esercitare il proprio diritto di voto (come è stato giustamente sottolineato, “un eccessivo interventismo nella valutazione della consapevolezza della scelta rischia di chiudere spazi di partecipazione effettiva e di infantilizzare i cittadini, determinando eccessi oligarchici e paternalisti” (Algostino, 2025), preme qui sottolineare l’incertezza complessiva che continua a circondare il cd. regionalismo differenziato.

Il Giudice delle leggi, con questa coppia di sentenze, propone alle parti in causa una prospettiva sistematica e conciliativa della “Repubblica delle autonomie”, che lascia tutti soddisfatti e, al tempo stesso, inappagati. Si rende quindi necessario interpretare con molta attenzione e accortezza le pronunce della Corte, nei singoli passaggi e nel loro insieme, per provare a immaginare quale potrà essere il futuro del regionalismo italiano. Con l’unica certezza che, dopo tutti questi rivolgimenti, non potrà più essere lo stesso che avevano immaginato i padri costituenti o il riformatore del 2001.

Il progetto regionalista è da sempre caratterizzato da una forte divaricazione di opinioni: la polarizzazione, del resto, non è un fenomeno legato solo all’attuazione dell’art. 116, comma 3 Cost., ma è presente nel nostro ordinamento sin dal dibattito costituente. Le differenze riguardano la posizione dei diversi schieramenti in campo: dopo la Seconda guerra mondiale, l’autonomia regionale era invocata per compensare i divari tra Nord e Sud del paese, e riequilibrare un assetto di governo uniforme che, di fronte a situazioni diverse, generava iniquità. Oggi, lo scontro si svolge a parti invertite, in un quadro politico rovesciato in cui i sostenitori della “maggiore autonomia” regionale sono considerati portatori di valori egoistici, che minacciano l’eguaglianza dei territori e delle comunità, mentre gli oppositori dell’autonomia differenziata (e dunque sostenitori della uniformità) si propongono come difensori della solidarietà nazionale.

Per cercare di attenuare le contrapposizioni ideologiche, la sent. 192/2024 chiarisce in premessa che l’art. 116, comma 3 Cost., «consente di superare l’uniformità nell’allocazione delle competenze al fine di valorizzare appieno le potenzialità insite nel regionalismo italiano». Vuole dire che la differenziazione regionale, in sé, non è un male, tutt’altro. Ad avviso di chi scrive, la differenziazione rappresenta un concetto sinonimo, se non l’essenza stessa dell’autonomia. Il problema è trovare un punto di equilibrio tra le esigenze di autonomia/differenziazione e altri diritti/valori protetti dalla Costituzione italiana (uguaglianza sostanziale, solidarietà, leale collaborazione etc.): per questo, nel testo della sentenza l’apologia della differenziazione è seguita dalla precisazione che l’art. 116, comma 3 Cost. «non può essere considerata come una monade isolata, ma deve essere collocata nel quadro complessivo della forma di Stato italiana, con cui va armonizzata».

Siamo dinanzi ad un sottile gioco acrobatico, condotto con destrezza dal Giudice delle leggi, che si muove tra le ragioni dell’autonomia e quelle dell’unità, le istanze della differenziazione e quelle dell’uniformità, l’ottica competitiva e quella solidarista. La sensazione, al termine della lettura, è di trovarsi di fronte ad un grande affresco sullo Stato decentrato, che ricostruisce in modo magistrale la traiettoria del regionalismo italiano, dalle origini ad oggi, provando a comporre all’interno di una cornice unitaria esigenze che faticano a trovare una modalità pacifica di convivenza.

L’incessante dialettica tra unità e pluralismo, insita nella Costituzione repubblicana, rappresenta la chiave di lettura generale dell’intera pronuncia. D’altra parte, la dialettica “conciliativa” tra unità e autonomia va imputata direttamente alla Costituzione, prima ancora che al suo Custode, dal momento che è l’art. 5 Cost. ad affermare l’unità e indivisibilità della Repubblica, imponendo a quest’ultima il riconoscimento, la valorizzazione e l’attuazione dei principi di autonomia e decentramento.

La Corte propone un criterio-guida per individuare il punto di equilibrio tra unità e differenziazione: la sussidiarietà. Un criterio flessibile, che consente di evitare richieste massive di funzioni, estese a tutte le materie di compe- tenza concorrente di cui all’art. 117, comma 3 Cost. E, soprattutto, blocca sul nascere richieste prive di una valida giustificazione. La sussidiarietà richiede infatti che le funzioni (legislative e amministrative) siano attribuite al «livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo». Funzioni, non materie. Una devoluzione per “blocchi di materie”, oltre che irragionevole e contraria al criterio di sussidiarietà (che riguarda, appunto, le funzioni), condurrebbe ad una modifica sostanziale delle competenze dei livelli di governo e della stessa forma di Stato senza passare per un formale procedimento di revisione costituzionale, con conseguente violazione dell’art. 138 Cost.

La Corte suggella questo fine ragionamento con un’affermazione che assume il sapore di regola aurea per l’attuazione del regionalismo dif- ferenziato: «la scelta sulla ripartizione delle funzioni legislative e am- ministrative tra lo Stato e le regioni o la singola regione, nel caso della differenziazione art. 116, comma 3 Cost., non può essere ricondotta ad una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi». In altre parole, l’attuazione dell’art. 116, comma 3 Cost. deve essere messa a «servizio del bene comune della società», e non divenire strumento di lotta tra livelli di governo, tanto in senso verticale (tra Stato e Regioni ordinarie) che orizzontale (tra Regioni ordinarie).

La pronuncia evita di affrontare quello che, ad avviso di chi scrive, rappresenta il vero nodo della questione (Bordignon, Rizzo, Turati, 2024), ossia la difficoltà di separare cartesianamente materie per le quali è in astratto possibile evidenziare un legame diretto con la tutela di un diritto civile e sociale, e quelle per le quali il legame non è immediato. Con riferimento a prestazioni e servizi che soddisfano diritti sociali e civili è evidente che una cesura netta tra materie che possono prestarsi alla tutela di diritti spettanti ai cittadini, nell’ambito delle quali si possono evidenziare standard prestazionali “misurabili ed esigibili”, e materie che non influenzano invece il godimento di tali diritti, non è facilmente sostenibile. E chi volesse farlo, verrebbe facilmente smentito dall’osservazione della realtà, che mostra una forte interconnessione e frequenti condizionamenti tra materie LEP e non LEP. L’esempio della protezione civile (materia non-LEP di cui tutte le Regioni intervenienti hanno chiesto l’immediata devoluzione) è eloquente: la diversa regolazione di questa materia in tutte le Regioni italiane, in assenza di standard prestazionali garantiti su tutto il territorio nazionale, può incidere direttamente sulla tutela della salute dei cittadini (materia LEP simbolo) nel caso in cui calamità naturali, come le recenti alluvioni o le pandemie, mettano direttamente a repentaglio l’incolumità e la salute dei cittadini.

In riferimento a questo punto, la sentenza si limita ad affermare che, «nel momento in cui il legislatore qualifica una materia come “no-LEP”, i relativi trasferimenti non potranno riguardare funzioni che attengono a prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Se, invece, lo Stato intende accogliere una richiesta regionale relativa a una funzione rientrante in una materia “no-LEP” e incidente su un diritto civile o sociale, occorrerà la previa determinazione del relativo LEP (e costo standard)».

Così facendo, con una decisione interpretativa di rigetto, la Consulta mantiene in vita la partizione delle materie in due elenchi, nonostante l’inconsistenza di questa distinzione: probabilmente, nell’ottica di non affossare (o inibire sul nascere) le trattative di alcune Regioni per il trasferimento immediato delle materie no-LEP.

Il difetto più grave di questa sentenza, e sicuramente più pericoloso, riguarda però i finanziamenti. La vera ragione, inconfessata, che muove le richieste di maggior autonomia avanzate da alcune Regioni del Nord, le più ricche e produttive del paese, è la distribuzione delle risorse. Nello specifico, il controllo sui cd. “residui fiscali”, ossia la quota di gettito tributario prodotto sul territorio che eccede il finanziamento dei servizi erogati dallo Stato sul medesimo territorio. La tesi di fondo, peraltro molto contestata in letteratura, è che vi siano Regioni che pagano imposte in misura maggiore del valore dei servizi pubblici che ricevono da parte dello Stato centrale, e altre che ricevono servizi pubblici per un ammontare maggiore dei tributi che producono e versano all’erario centrale. Questa differenza, attiva o passiva, rappresenta il vero motivo del contendere, mimetizzato dietro pretese di maggiore funzionalità, miglior gestione, valorizzazione delle potenzialità territoriali inibite da un regime regionale uniforme.

L’idea di poter incidere ulteriormente sulla distribuzione delle risorse tra le Regioni ordinarie, imitando il modello delle Regioni a statuto speciale (e del regionalismo asimmetrico “alla spagnola”), è alla base del regio- nalismo differenziato tratteggiato dalla legge n. 86/2024.

Secondo la legge Calderoli, il finanziamento delle nuove funzioni deve basarsi sulla compartecipazione regionale ad uno o più tributi erariali maturati nel territorio della Regione. Com’è noto, le quote di compartecipazione ai tributi erariali maturati nel territorio regionale costituiscono la principale entrata tributaria delle Regioni a statuto speciale (RSS): per ciascuna RSS, lo statuto elenca le imposte erariali delle quali una quota percentuale è attribuita alla Regione, le aliquote eventualmente differenziate per ciascun tipo di imposta, la base di computo, le modalità di attribuzione.

La lacuna principale della sentenza è quella di non aver censurato la soluzione prescelta dal Governo che, per il finanziamento delle funzioni aggiuntive, punta su entrate sostanzialmente derivate anziché sui tributi propri, affidati all’autonomia (e alla responsabilità) delle Regioni diffe- renziate. L’autonomia “politica” delle Regioni differenziate, infatti, dovreb- be essere accompagnata da una corrispondente autonomia finanziaria, intesa come capacità di generare risorse proprie attraverso il potere di regolare e gestire. In assenza di tale corrispondenza, cessa la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Su questo punto specifico l’intervento della Corte avrebbe dovuto essere più incisivo, stigmatizzando la perdurante inattuazione dell’art. 119 Cost. (Pinelli, 2024).

In conclusione, all’indomani della decisione della Consulta, alcuni aspetti chiave del regionalismo differenziato restano ancora senza risposta. Al punto che entrambe le fazioni “politiche” gridano vittoria alla lettura dei diversi passaggi della sentenza e tutti gli attori in campo, citando selet- tivamente alcuni capi della stessa, si sentono confermati nelle proprie posizioni.

La decisione assunta, da ultimo, sull’inammissibilità del referendum non aiuta - per usare un eufemismo - la comprensione del quadro d’insieme. Il fatto che lo stesso Giudice che, due mesi prima, aveva sottoposto la legge Calderoli ad un «massiccio effetto demolitorio», impedisca subito dopo una pronuncia popolare che avrebbe potuto portare alla definitiva cancellazione della legge stessa, sgombrando il campo da ogni dubbio sulla sua residua legittimità e attuazione, non può che confondere le idee (sull’ammissibilità del quesito referendario, v. Castelli, 2024). E far pensare a tutti di essere, pro quota, dalla parte giusta.

Riferimenti bibliografici

Algostino A., Non di solo referendum, Il Manifesto, 29 gennaio 2025

Bordignon M., L. Rizzo, G. Turati, Il grande equivoco delle materie non- LEP, in Lavoce.info, 8 novembre 2024

Castelli L., Divagazioni sparse intorno all’ammissibilità del referendum sulla legge Calderoli, pubblicato il 7 gennaio 2025, in www.diariodidirittopubblico.it

Cheli e. (2024), La forma dello Stato regionale in una storica sentenza della Corte costituzionale, in Astrid Rassegna

Chessa O. (2023), Sui profili procedurali del DDL Calderoli come “legge generale di attuazione”, in Astrid rassegna

Pinelli C., Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come una “monade isolata” (osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), pubblicato il 23 dicembre 2024, in www.diariodidirittopubblico.it

Tubertini C. (2025), Prime osservazioni sul Disegno di legge recante delega al Governo per la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, in Astrid Rassegna

Viesti g., Memoria predisposta per l’audizione presso la commissione affari costituzionali della Camera dei deputati sull’A.C. 1665 “Dispo- sizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata”, 15 marzo 2024

Constitutional Court rewrites differentiated regionalism, but many questions remain unanswered

Gianluca Gardini

Parole chiave: editoriale, sentenza n. 192/2024 della Corte Costituziona- le, legge n. 86/2024, regionalismo differenziato

Keywords: Editorial, Italian Constitutional Court Ruling no. 192/2024, Law No. 86/2024, Differentiated Regionalism