Il ruolo del principio di sussidiarietà nella sentenza della Corte Costituzionale n. 192/2024 / Stefano Civitarese Matteucci
Numero 1 2025 • ANNO XLVI
Professore ordinario a tempo pieno di diritto pubblico, Università di Chieti-Pescara.
Come è noto, la sentenza 192/1994 ha dichiarato l’incostituzionalità di buona parte delle norme (probabilmente le più significative) della cosiddetta legge Calderoli, n. 86 del 2024.
Conviene ricordare che alla fine di febbraio 2018, pochi giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo, il governo Gentiloni aveva concluso accordi preliminari con Lombardia e Veneto, amministrate dal centrodestra, ed Emilia-Romagna, amministrata dal centrosinistra, per concedere loro maggiore autonomia su parecchie materie. La richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia e Veneto era stata supportata anche da due referendum consultivi, tenutisi a ottobre 2017, che erano stati sostenuti anche del Movimento 5 Stelle. L’allora capo del Movimento, Luigi Di Maio, aveva dichiato trattarsi di un «un referendum semplicissimo, che dice: le risorse che incassiamo in Lombardia e in Veneto, e che dobbiamo mandare a Roma ma che poi le stesse dovranno tornare qui, ce le teniamo qui direttamente ed evitiamo le lungaggini burocratiche».
Di conseguenza nel contratto di governo del primo governo Conte del maggio 2018 viene inserito un passaggio sul regionalismo differenziato: «l’impegno sarà quello di porre come questione prioritaria nell’agenda di governo l’attribuzione, per tutte le regioni che motivatamente lo richiedano, di maggiore autonomia in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione, portando anche a rapida conclusione le trattative tra governo e regioni attualmente aperte». Si fa già, dunque, riferimento, a tutte le regioni che lo richiedano, precisando che «il riconoscimento delle ulteriori competenze dovrà essere accompagnato dal trasferimento delle risorse necessarie per un autonomo esercizio delle stesse. Alla maggiore autonomia dovrà infatti accompagnarsi una maggiore responsabilità sul territorio, in termini di equo soddisfacimento dei servizi a garanzia dei propri cittadini e in termini di efficienza ed efficacia dell’azione svolta. Questo percorso di rinnovamento dell’assetto istituzionale dovrà dare sempre più forza al regionalismo applicando, regione per regione, la logica della geometria variabile che tenga conto sia delle peculiarità e delle specificità delle diverse realtà territoriali sia della solidarietà nazionale, dando spazio alle energie positive e alle spinte propulsive espresse dalle collettività locali».
Il secondo governo Conte, questa volta con il centrosinistra, confermò sostanzialmente questa impostazione. Nel programma di governo si parla, genericamente, di “autonomia giusta e cooperativa” e di nuova autonomia rispettosa della solidarietà nazionale.
L’accettazione del Governo di discutere di intese, quelle promosse dalle tre suddette regioni, sostanzialmente prive di adeguata motivazione, derivava da un’interpretazione dell’art. 116.3 come norma autorizzatrice di scelte devolutive a prescindere da particolarità territoriali – che caratterizzavano, invece, nel testo originario dell’art. 116 della Costituzione le “vecchie” regioni a statuto speciale – configurandosi, come, si diceva in quel momento, l’applicazione della sussidiarietà per tutte le Regioni.
La legge Calderoli è figlia di quell’impostazione, che, considerando l’art. 116.3 come clausola generale per trasferire più poteri e risorse a tutte le regioni, tenta di stabilire una cornice di condizioni per l’esercizio di questa autonomia fondate sulla necessità di rispettare i livelli essenziali dei diritti sociali e civili garantiti a livello nazionale.
La Corte costituzionale, a sua volta, nella sentenza 192 ha fatto del principio di sussidiarietà l’architrave su cui poggiare l’interpretazione dell’autonomia differenziata, ma in una direzione e con esiti affatto diversi da quelli della narrazione che le forze politiche avevano avviato nel 2017.
Secondo la Corte, infatti, gli artt. 1, comma 2, 2, commi 1 e 2, e 4 della legge n. 86 del 2024, distinguendo più volte «materie o ambiti di materie», alludono a un trasferimento anche di tutte le funzioni (amministrative e/o legislative) rientranti in una materia. L’art. 116, terzo comma, Cost., richiede, invece, che il trasferimento riguardi specifiche funzioni, di natura legislativa e/o amministrativa, e sia basato su una ragionevole giustificazione, espressione di un’idonea istruttoria, alla stregua del principio di sussidiarietà. In generale l’art. 2, comma 1, primo periodo, della legge n. 86 del 2024, è dichiarato incostituzionale nella parte in cui non prescrive che l’iniziativa regionale sia giustificata alla luce del principio di sussidiarietà.
Sulla base del principio di sussidiarietà, come detto, la Consulta costruisce l’intelaiatura dei rapporti tra i livelli di governo della Repubblica, in grado di garantire «il collegamento tra l’unità e indivisibilità della Repubblica, da una parte, e l’autonomia delle regioni accresciuta grazie alla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma, Cost., dall’altra». (§ 4.1. del Considerato in diritto).
Così declinato, il principio «esclude un modello astratto di attribuzione delle funzioni, ma richiede invece che sia scelto, per ogni specifica funzione, il livello territoriale più adeguato, in relazione alla natura della funzione, al contesto locale e anche a quello più generale in cui avviene la sua allocazione. La preferenza va al livello più prossimo ai cittadini e alle loro formazioni sociali, ma il principio può spingere anche verso il livello più alto di governo. Ai fini dell’attribuzione della funzione, contano le sue caratteristiche e il contesto in cui la stessa si svolge. […] Poiché il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza, esso non può che riferirsi a specifiche e ben determinate funzioni e non può riguardare intere materie».
Inoltre, non potendo riferirsi a materie ma a funzioni, la ripartizione «non può essere ricondotta a una logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici, né dipendere da valutazioni meramente politiche. Il principio di sussidiarietà richiede che la ripartizione delle funzioni, e quindi la differenziazione, non sia considerata ex parte principis, bensì ex parte populi».
In un panorama di reazioni in prevalenza positive all’impostazione della sentenza si segnala l’opinione critica di cesare Pinelli (Pinelli 2024) secondo cui l’interpretazione della Consulta pecca di artificiosità. In particolare, non sarebbe giustificata la centralità conferita al principio di sussidiarietà (che in realtà, essendo piuttosto un meccanismo, richiede di essere sorretta da altri principi) nei confronti proprio del principio di differenziazione, questo alla base del terzo comma dell’art. 116 e non la sussidiarietà.
Nella chiave interpretativa della Corte costituzionale la sussidiarietà si collega alla valutazione dell’adeguatezza dell’attribuzione della funzione a un determinato livello territoriale di governo, a sua volta fondata su tre criteri: l’efficacia e l’efficienza nell’allocazione delle funzioni e delle relative risorse, l’equità che la loro distribuzione deve assicurare e la responsabilità dell’autorità pubblica nei confronti delle popolazioni interessate all’esercizio della funzione. Tali criteri sono desunti da varie disposizioni costituzionali.
In particolare, il criterio di efficacia ed efficienza nell’allocazione delle funzioni trova fondamento nel buon andamento della pubblica amministrazione. Il criterio di equità è ricavato da una pluralità di parametri, incluso quello dei livelli essenziali delle prestazioni. Il principio di responsabilità costituisce un fattore di educazione all’autogoverno democratico nell’avvicinare alla popolazione interessata il livello di governo, mentre, per altro verso, esso impedisce di trasferire compiti pubblici a livelli più “a valle” tutte le volte che lo sconsigli la stretta interdipendenza tra le funzioni coinvolte.
Questi criteri sono, dunque, da impiegare per far funzionare “l’ascensore” della sussidiarietà, ma soprattutto essi consentono alle regioni di chiedere una deroga all’«assetto ritenuto in via generale ottimale dalla Costituzione nella ripartizione delle funzioni, sia legislative che amministrative, tra Stato, regioni ed enti locali». L’art. 116.3 sarebbe, in tal guisa, un’espressione della flessibilità insita nel principio di sussidiarietà.
Trattandosi di una deroga all’ordinaria ripartizione delle funzioni, «essa va giustificata e motivata con preciso riferimento alle caratteristiche della funzione e al contesto (sociale, amministrativo, geografico, economico, demografico, finanziario, geopolitico ed altro) in cui avviene la devoluzione, in modo da evidenziare i vantaggi – in termini di efficacia e di efficienza, di equità e di responsabilità – della soluzione prescelta. L’iniziativa della regione e l’intesa previste dalla suddetta disposizione costituzionale devono, pertanto, essere precedute da un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico».
In questo passaggio, cruciale nella sentenza, mi pare si sveli un nodo di fondo, derivante probabilmente da una non felice scrittura delle disposizioni costituzionali in esame. Cosa significa, in particolare, “deroga all’ordinaria ripartizione delle funzioni”? Sembra, in effetti, che l’ordinario riparto delle funzioni – in base all’art. 118 – sia proprio quello che si basa sul meccanismo ora, con maggiore dovizia di particolari, delineato dalla Corte. In altre parole, le funzioni (amministrative) sono allocate tra i livelli di governo secondo valutazioni legislative (degli organi titolari di potere legislativo) in base alla dinamica (o dialettica) sussidiarietà-adeguatezza. Per inciso, tra questi due criteri proprio la differenziazione ha fatto più fatica a trovare uno spazio autonomo, finendo per essere succedanea all’uno o all’altro. Per rintracciare forme di differenziazione ci si deve riferire essenzialmente agli obblighi in capo ai piccoli comuni (con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti) di associarsi per esercitare compiti e funzioni attribuiti in via generale a tutti i comuni italiani, grandi e piccoli. In effetti, più che di differenziazione si tratta di un’omogeneizzazione del modo di operare dei “comuni polvere”. Per il resto, non avendo le regioni poteri su funzioni fondamentali e organi di governo dei comuni, i livelli di governo sono composti da enti “tutti uguali”. Come è stato ricordato (Bin, 2017), i tentativi di riforma all’insegna della differenziazione, sin dall’Ottocento, hanno cozzato con un’obiezione giuridica, di cui si fece interprete il Consiglio di Stato nel 1852, figlia a sua volta di un pregiudizio nei confronti dell’autonomia, cioè che «la legge deve essere eguale per tutti: i Comuni, o grandi o piccoli, devono avere gli stessi diritti» (Petracchi, 1962).
Tornando alla questione dell’ordinaria ripartizione delle funzioni (in linea di principio flessibile in base all’art. 118), ciò cui si può derogare sono, allora, le competenze legislative, fissate, invece, in modo rigido nella Costituzione. Non sembra, quindi casuale, che l’art. 116.3 si riferisca a titoli di competenza legislativa. Tutto sommato, che le regioni avessero pensato di ottenere materie non era poi così sorprendente. Se ci si riferisce a funzioni (da ricavare all’interno delle materie), tanto la differenziazione (tra tutti i livelli di governo) quanto il giudizio di adeguatezza sono contemplati nell’art. 118. Che secondo la legge Calderoli la partita riguardasse le materie e quindi la legislazione è confermato dalla disposizione (rimasta in piedi) secondo cui «le funzioni amministrative trasferite alla Regione in attuazione dell’articolo 116, terzo comma, della Costituzione sono attribuite, dalla Regione medesima, contestualmente alle relative risorse umane, strumentali e finanziarie, ai comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane e Regione, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza».
Quello che risulta innovativo nell’argomento della Corte costituzionale è una sorta di generalizzazione (però in favore delle regioni e non dello Stato) dell’attribuzione della funzione legislativa (in deroga) a partire da funzioni e compiti amministrativi, secondo lo schema della “chiamata in sussidiarietà” (sentenza n. 303 del 2003). Questa, però, veniva fondata allora, non sulla sussidiarietà, ma sul principio di legalità e circondata da limiti di ordine procedurale.
In sostanza, si prospetta, in base al nuovo quadro delineato dalla Corte attorno al principio di sussidiarietà, una sorta di ritaglio all’interno di materie la cui competenza legislativa spetta già alle regioni – a eccezione dei principi fondamentali – cui si aggiungono le tre materie di legislazione esclusiva dello Stato. Per tal via, le intese avrebbero a oggetto brani di competenza legislativa “in deroga”, in quanto connessi all’esercizio di compiti amministrativi, secondo appunto l’inversione tra legislazione e amministrazione caratterizzante la sentenza 303.
Si tratta di un meccanismo concettualmente assai complicato, tanto che riesce, persino, difficile da immaginare a regime. In una certa materia (mettiamo “tutela e sicurezza del lavoro”) dovrebbero, per esempio, coesistere principi fondamentali statali per le funzioni non trasferite, principi fondamentali regionali e relativa disciplina per le funzioni trasferite alle regioni differenziate, e poi tutte le discipline regionali (delle regioni differenziate e non differenziate) conformi ai principi fondamentali nazionali.
Ci si può domandare se la rilettura della Corte costituzionale consenta realisticamente margini di applicazione dell’art. 116.3 Cost. Oltre alla complessità di questo meccanismo quanto all’esito, occorre ricordare l’elemento sostanziale a cui la Consulta vincola la deroga all’ordinaria ripartizione delle funzioni. Si tratta di quella istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico, per dimostrare che certi compiti è bene siano assegnati a una regione e possibilmente soltanto a quella. Evidentemente qui, a differenza dell’impostazione della legge Calderoli, non si tratta soltanto di assicurare (“in negativo”) che dal trasferimento di “materie o ambiti di materie” non derivi un vulnus per i diritti delle persone ovunque esse vivano. Prova questa comunque difficile da rendere, perché, evidentemente, anche ove fossero fissati i LEP, con i relativi costi-standard, la loro effettiva soddisfazione sarebbe valutabile solo ex post. Si tratta, invece, di dimostrare in positivo (non necessariamente in connessione con i LEP) che certe funzioni e compiti siano da assegnare a questa o a quella regione sulla base di ragioni specifiche e obiettive.
Con un parametro così rigoroso la Corte disporrebbe di uno strumento potente per sindacare eventuali intese che giungessero, nonostante tutto, in porto, salvo che non volesse poi accontentarsi di un controllo, per così dire, esterno o debole sulle motivazioni alla base della differenziazione.
Vi sono, peraltro, molte rilevanti materie, per cui la Corte anticipa, per così dire, una sorta di presunzione juris et de iure di non trasferibilità. Nel paragrafo 4.4, infatti, la Corte costituzionale osserva che, per motivi di ordine sia giuridico sia tecnico-economico, il trasferimento di certe funzioni sarebbe difficilmente giustificabile alla luce del principio di sussidiarietà. Pur se menzionate dall’art. 116.3, in tali materie risiedono «stringenti vincoli derivanti dalle altre materie trasversali o dall’ordinamento unionale o dai vincoli internazionali, che si sono rafforzati a seguito dei cambiamenti che hanno investito settori rilevantissimi della vita politica, economica e sociale». Tra queste la Corte include “commercio con l’estero”, “tutela dell’ambiente”, “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia”, “porti e aeroporti civili”, “grandi reti di trasporto e navigazione”, “professioni”, “ordinamento della comunicazione”, “norme generali sull’istruzione”.
L’impressione è che il modello di regionalismo differenziato (o asimmetrico) che ha preso le mosse dalle bozze di intesa avviate dalle “regioni pilota” nel 2018 sia giunto al capolinea. Il che non vuol dire che la questione dell’autonomia, che si per sé implica differenziazione (Gardini, 2024; Rivosecchi, 2024), non sia rilevante. Occorrerebbe, però, un progetto politico complessivo che muovesse non da fughe in avanti delle “regioni ricche” e rincorse di quelle meno fortunate, ma da un’idea di autonomia per progetti e obiettivi, in grado di attraversare tutti i livelli di governo e relative comunità, che al momento non si intravede all’orizzonte (Bin, 2017).
Riferimenti bibliografici
Bin R. (2017), L’attuazione dell’autonomia differenziata, in Forum di quaderni costituzionali
Gardini G. (2024), Il puzzle delle autonomie, in Istituzioni del Federalismo, p. 248.
Petracchi A. (1962), Le origini dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, II, Venezia, p. 173.
Pinelli C. (2024), Perché la disciplina dell’autonomia differenziata non va intesa come “una monade isolata” (Osservazione a Corte cost. n. 192 del 2024), in Diario di diritto pubblico
Rivosecchi G. (2024), L’art. 119 cost. e le implicazioni finanziarie del regionalismo differenziato: la quadratura del cerchio, in Istituzioni del Federalismo, p. 255.
Abstract: L’articolo commenta l’uso del principio di sussidiarietà da parte della Corte costituzionale italiana nella decisione n. 192/2024. Il succo dell’argomentazione è che, ponendo la sussidiarietà riferita a singole funzioni al centro dell’interpretazione di tutte le disposizioni costituzionali relative alla distribuzione dei poteri legislativi e amministrativi tra i livelli di governo, la Corte lascia poco spazio alle Regioni per domandare maggiore autonomia legislativa e di spesa.
Parole-chiave: autonomia regionale differenziata, sussidiarietà, funzioni amministrative e legislative.
The role of the subsidiarity principle in the Italian Constitutional Court ruling No 192/2024 by Stefano Civitarese Matteucci
Abstract: The article comments on the Italian Constitutional Court’s use of the subsidiarity principle in the decision No. 192/2024. The gist of the argument is that by putting subsidiarity referred to specific actions at the core of the interpretation of all the constitutional provisions dealing with the distribution of legislative and administrative powers between levels of government, the Court leaves little room for the Regions to ask for more lawmaking and spending autonomy.
Keywords: Differentiated regional autonomy, subsidiarity, administrative and legislative competences.