N.6 1999 • ANNO XX - novembre/dicembre
Editoriale/Roberto Bin
In primo luogo, ripensare i consigli regionali.

Dopo anni d’attesa, finalmente è arrivata la riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del Presidente della giunta regionale, nell’immediato, e un’ampia autonomia statutaria delle Regioni ordinarie che sarà esercitabile in un futuro prossimo. Molti punti oscuri rendono però difficile la prima applicazione di questa legge costituzionale che, come ormai avviene purtroppo quasi sempre nel drafting legislativo, appare affrettata e tecnicamente molto lacunosa.

Sono noti i problemi che essa dà sia per quanto riguarda l’applicazione immediata (la titolarità del potere regolamentare è già transitata in capo all’esecutivo? È già operativa l’incompatibilità tra la carica di consigliere e quella di parlamentare europeo?) sia per le prospettive immediatamente successive all’insediamento dei nuovi organi, dopo le prossime elezioni (anzitutto per quel che riguarda la nomina degli assessori "esterni" e il rapporto tra Presidente della giunta regionale e consiglio, in costanza di norme statutarie che sono sicuramente in contrasto con lo spirito, se non anche con la lettera, della riforma).

Il periodo transitorio si preannuncia quindi piuttosto oscuro e controverso, cosa particolarmente grave, dato che, come è risaputo, la prima attuazione di una nuova disciplina della "forma di governo" condiziona sempre fortemente le modalità con cui essa in seguito si consoliderà. Ciò significa che parte delle scelte che verranno formalizzate nei futuri statuti rischiano di essere pregiudicate dalle prassi istituzionali che verranno seguite nell’immediato indomani dell’insediamento dei "nuovi" consigli e del "nuovo" Presidente. Siccome queste prime prassi istituzionali si svolgeranno senza un quadro preciso e univoco di regole, il rischio che esse siano dominate da contestazioni e conflittualità è piuttosto elevato. Certo non sarebbe una buona premessa con cui inaugurare la nuova "stagione costituente" che si apre per le Regioni.

Lo scenario che mi immagino e pavento è questo. Il Presidente della giunta regionale, eletto direttamente dai cittadini, formerà un esecutivo con assessori almeno in parte esterni al consiglio e non riterrà necessario – e forse neppure coerente con il sistema – presentarsi in consiglio per discutere il programma di governo e ottenere un voto favorevole che equivalga alla fiducia. Avrebbe ragione "se" ragionassimo sulla base del regime transitorio introdotto con la legge cost. 1/1999; in questo caso, dovremmo infatti ritenere tacitamente abrogate tutte le disposizioni degli statuti che strutturano i rapporti consiglio/giunta secondo il modello parlamentare tradizionale. Il nuovo modello, così vicino a quello in vigore per i Sindaci, è ispirato a princìpi molto diversi, che prescindono dal rapporto di fiducia e da tutti i meccanismi che regolano, negli statuti attuali, il suo instaurarsi, il suo svolgersi, il suo concludersi. Ma quali potrebbero essere le reazioni del consiglio? Le norme statutarie in vigore le conosciamo tutti: esse fanno del consiglio il perno di ogni attività decisionale della Regione: dalla formazione delle giunte al potere regolamentare, alle nomine. Per di più, spetta al consiglio approvare le nuove norme statutarie. È comprensibile, pertanto, che il consiglio minimizzi l’effetto diretto delle norme della riforma costituzionale sulla vecchia disciplina statutaria, sia perché così manterrebbe integre o quasi le proprie attribuzioni per tutto il periodo transitorio sia perché così eviterebbe di veder pregiudicate le scelte statutarie che dovrà compiere. Il "nuovo" Presidente della giunta regionale rivendicherà contro il consiglio il ruolo che gli riconosce la riforma costituzionale; il consiglio rivendicherà contro il Presidente la sua funzione costituente, il potere di scrivere le nuove regole del gioco.

Se la nuova legislatura inizierà con un conflitto tra esecutivo che rivendica a sé i poteri che gli competono in un sistema più o meno presidenziale, quale emerge dal regime transitorio, e una assemblea che si arrocca in difesa delle sue prerogative statutarie, è forte il rischio che la riforma degli statuti non avvenga mai oppure, e forse sarebbe anche peggio, che si realizzi attraverso uno di quei tipici compromessi politici di cui è piena la storia istituzionale italiana, che lascerebbe tutti i problemi irrisolti e tutte le ambiguità indefinite. Sarebbe una vera iattura. Avremmo allora uno statuto con lunghe, ricche e vaghe norme programmatiche, dalla sussidiarietà alla pace, ma che mancherebbe il suo obiettivo fondamentale: assicurare regole chiare e univoche circa i ruoli, le procedure e le competenze. Sicché, alla fine, ci ritroveremmo con un sistema di governo ibrido, in cui il Presidente della giunta regionale non riesce ad esercitare in pieno i poteri e le responsabilità adeguati alla sua forte legittimazione elettorale. La riforma sarebbe così fallita.

La riforma costituzionale appena introdotta è figlia della stessa filosofia che ha portato qualche anno fa alla riforma dell’elezione dei Sindaci. È una filosofia che ha un senso preciso, rivolta com’è ad assicurare una certa forza agli esecutivi, offrendo agli elettori la possibilità di sceglierne il capo e concentrando su di lui le responsabilità di governo: sono cose a tutti note. A livello comunale ciò ha comportato che venissero sistematicamente introdotte una serie di modifiche dirette ad adattare l’insieme dei poteri e delle competenze al nuovo ruolo del Sindaco: dalla riduzione dei controlli, alla riscrittura dei rapporti tra Sindaco, segretario comunale e dirigenza amministrativa, allo spostamento del potere regolamentare e di organizzazione amministrativa in capo all’esecutivo, il quadro si è fatto progressivamente coerente. Questa disciplina non è però stata il frutto di autonomia statutaria del Comune, ma di una legislazione proveniente dallo Stato: il consiglio comunale è stato l’attonito spettatore di una progressiva espropriazione delle sue attribuzioni ed oggi è evidente la sua forte crisi di identità.

A livello regionale, invece, la riforma dovrebbe vedere protagonisti proprio i consigli regionali: chi può immaginare che essi avranno tanta generosità da elargire le loro attribuzioni? Dovremo assistere, come è capitato con i Sindaci, al pellegrinaggio a Roma dei "nuovi" Presidenti, per chiedere al Governo di intervenire d’autorità completando dal centro, tassello dopo tassello, il quadro istituzionale regionale, in sostituzione dei consigli regionali inerti o recalcitranti? Non sarebbe certo un esempio di autonomia o un bel modo per iniziare la nuova stagione dell’autonomia regionale.

Come se ne esce? L’unica via d’uscita è fare ciò che a livello comunale non si è fatto: reinventare il ruolo del consiglio regionale. La nostra storia costituzionale non ci fornisce alcun aiuto, perché è sempre stata ispirata, al centro come in periferia, dal regime parlamentare. Le assemblee elettive parlamentari, regionali, provinciali e comunali, hanno funzionato sempre secondo lo stesso schema; i regolamenti delle Camere, infatti, sono stati ricalcati innumerevoli volte e oggi disciplinano, con poche varianti, il funzionamento di tutte le assemblee. Ma questo modello non è affatto adeguato al ruolo dei consigli in un sistema come quello comunale o quello regionale del dopo-riforma.

Un esempio può bastare ad indicare quanto la situazione sia cambiata: riguarda il potere regolamentare. È noto che il vecchio testo costituzionale prevedeva che anche i regolamenti, oltre alle leggi, dovessero essere approvati dal consiglio. Era un’anomalia assoluta, la prova di una forte sovrapposizione dei consigli sulle giunte: il risultato è stato che si sono prodotti pochissimi regolamenti e moltissime leggi, mentre le giunte regionali hanno cercato in tutti i modi di occupare lo spazio regolamentare in forme improprie e spesso abusive. Abrogato il vecchio testo, senza alcuna norma transitoria, è convincente ritenere che si espanda il principio generale per cui i regolamenti siano ormai di competenza dell’esecutivo (ma esattamente di chi: del Presidente della giunta regionale o della giunta, formata in tutto o in parte da soggetti non eletti e neppure "fiduciati" dal consiglio?). Ma come si ripartiscono i compiti tra legge e regolamento? Se non ci fosse una ripartizione, che spetterebbe allo statuto tracciare e garantire (e, quindi, ancora una volta, al consiglio regionale deliberare), avremmo il massimo grado di confusione e una perenne concorrenza nella produzione normativa tra l’esecutivo e il legislativo: il primo cercherebbe di attuare direttamente con regolamento le leggi statali, le direttive comunitarie, ecc., il secondo cercherebbe di sovrapporre la "sua" legge alla disciplina regolamentare.

Introdurre una ripartizione di competenze significa però far fare un passo indietro alla potestà legislativa consiliare, la quale non potrebbe invadere le sfere di competenze lasciate (ancora dallo statuto) al regolamento dell’esecutivo. È probabile che questo porti il consiglio a perdere di vista tutta una serie di questioni attinenti al funzionamento dell’amministrazione, alla disciplina dei procedimenti, alla gestione dei piani e dei servizi. Dove finisce il fondamentale ruolo che svolge il consiglio nel controllo politico dell’esecutivo? Il consiglio, che perde una porzione significativa del suo potere legislativo, deve esercitare quello che gli resta con strumenti fortemente potenziati per non soccombere. Lo stesso distacco politico dell’esecutivo dell’assemblea, con l’eliminazione del rapporto di fiducia, esalta la "dualità" degli organi: non certo nel senso che essi si atteggino come protagonisti di un conflitto permanente, ma almeno nel senso che il consiglio non debba più dipendere dai dati forniti dall’esecutivo e dalla sua iniziativa.

Insomma, i consigli regionali sono chiamati ad una revisione delle modalità di esercizio delle loro attribuzioni che dovrà essere radicale: poche leggi, nessuna compartecipazione nelle scelte organizzative e gestionali, ma un’attività di controllo e di impulso sistematica. Un cambiamento di mentalità e di procedure assai più radicale di quello a cui andranno incontro gli esecutivi regionali. Non è affatto detto che ciò comporti una riduzione del ruolo politico dei consigli (c’è qualcuno che può dubitare del ruolo politico del Senato americano, per fare l’esempio più evidente di cosa sia un’assemblea efficiente in un sistema presidenziale?), ma questo ruolo va ridisegnato rompendo la continuità con il passato. E va ripensato a partire dal quadro dei rapporti tra maggioranza e minoranza, in modo da evitare che le funzioni di controllo politico, di indagine sulla azione regionale, di ispezione nell’amministrazione, di verifica dei risultati siano ridotte a procedure puramente rituali. Lo statuto e il regolamento interno dovranno essere riscritti integralmente, rompendo consapevolmente con l’esperienza passata.

Si ritorna così al punto di partenza: per riscrivere la forma di governo regionale secondo un modello coerente e bilanciato bisogna rompere la continuità con il passato e aprire la stagione statutaria con la consapevolezza che il compito non può essere affrontato né muovendo dalla difesa di ogni prerogativa consiliare precedente né affrontando il periodo transitorio con la protervia di chi pensa che sia già tutto scritto nella legge costituzionale e non ci sia nulla da trattare. Il periodo transitorio è estremamente delicato: richiede accordo sulle procedure per giungere alla sistemazione definitiva e sull’esigenza che questa sistemazione sia chiara e rispettosa dei ruoli. E richiede consapevolezza su questo: che lo statuto deve contenere magari poche norme, ma tutte quelle necessarie a prevenire futuri conflitti in ordine alla distribuzione delle competenze. Il fallimento degli statuti sarebbe il fallimento della riforma costituzionale: nessuno, nella Regione, ne trarrebbe vantaggio