N.5 1999 • ANNO XX - settembre/ottobre
Editoriale/Roberto Bin
Il "muro" scolastico.

Numerose generazioni l’hanno attesa inutilmente, ma ora la svolta epocale sta per compiersi. Il sistema scolastico italiano è sottoposto ad un processo di riforma che lo percorrerà per tutta la sua lunghezza, dalla scuola materna all’università e alla formazione post-lauream. Se i frequenti sommovimenti tellurici che sconquassano di continuo la politica italiana non bloccheranno improvvisamente questo processo, l’intero panorama dell’istruzione italiana ne risulterà mutato.

Eppure questa evidente rottura nell’ordinato succedersi delle generazioni – la scuola dei nostri figli sarà fortemente diversa da quella nostra e dei nostri genitori – non è oggetto di un vero dibattito pubblico. Tutta l’attenzione è infatti attratta da un unico problema dell’organizzazione scolastica, il nodo del sostegno pubblico alla scuola privata. Certo non è un nodo da poco. In quasi tutti i paesi europei, l’educazione pubblica si è lentamente e a fatica affrancata dall’egemonia dell’educazione religiosa attraverso una lotta politica spesso assai dura. Ma in Italia questo distacco non si è mai integralmente compiuto. Il regime "concordatario", che da noi si è scelto come regola dei rapporti tra stato e chiesa, ha mantenuto un rapporto "consociativo" che ha perpetuato una posizione di privilegio della chiesa cattolica, rispetto agli altri culti, nell’organizzazione degli studi: non solo attraverso la compresenza di istituti religiosi di istruzione, accanto a quelli pubblici, in tutto l’arco degli studi, università compresa, ma anche attraverso la presenza dell’insegnamento religioso, retribuito dallo Stato, e dei simboli della religione cattolica negli istituti di istruzione laica.

In questa situazione è comprensibile che il divieto di finanziamento pubblico della scuola privata, che la parte laica legge (e non senza fondamento) nell’art. 33.3 Cost., sia divenuto una vera e propria bandiera, sotto cui si riuniscono tutti coloro che hanno a cuore i valori della scuola come servizio pubblico laico e pluralista. Tanto più che, essendo le risorse pubbliche limitate (per non dire carenti), è chiaro che tutto ciò che va verso l’istruzione privata è tolto all’istruzione pubblica: il cui stato di difficoltà (e, in certe situazioni, di disfacimento) è poi assunto da parte cattolica come un fattore concorrenziale che promuove l’offerta educativa privata. D’altra parte (cioè, da parte cattolica), l’attuale situazione politica (un governo diretto dalla sinistra, cui i voti del centro cattolico sono indispensabili) appare perfetta per avanzare una richiesta precisa di superamento o di aggiramento del divieto costituzionale, dando ossigeno ad un sistema educativo, quello privato, che a fatica si può reggere sul solo apporto delle rette. Ma questo proclamato interesse di parte cattolica, e soprattutto della Chiesa ufficiale, di mantenere vivo il sistema delle scuole confessionali, rafforza il sospetto dei laici che la Chiesa voglia usare i danari pubblici per catechizzare le nuove generazioni.

È evidente che da un intreccio così stretto non se ne esce facilmente, e l’azione innovativa del governo sul piano scolastico rischia di restarne soffocata. Da qui il tentativo ripetuto dei governi nazionale e regionali governo (dei governi, perché anche quelli regionali vi si trovano impegnati) di trovare escamotage continui che consentano di venire incontro alle richieste di parte cattolica senza infrangere il divieto sotto cui si serrano le file laiche. Governi di sinistra che s’inventano espedienti di sostegno pubblico nelle spese sostenute dalle famiglie che optano per le scuole private che ricordano l’ educational voucher di thatcheriana memoria (si veda il saggio di Torre); oppure che parificano gli oneri previdenziali di categorie, quali gli insegnanti "pubblici" e quelli "privati", che nulla hanno da spartire in comune quanto a modalità di assunzione, livello di retribuzione, status giuridico e garanzie di libertà d’insegnamento (se non addirittura di tutela della dignità personale).

Sono soluzioni inevitabilmente pessime, perché non risolvono il nodo di fondo: cosa sia la scuola privata nel nostro sistema. E questo nodo di fondo non lo si può sciogliere sinché la discussione si svolge a colpi di accuse e di argomentazioni speciose, senza il tentativo di iniziare a distinguere e a capire dove le opinioni sono davvero irriducibili. Per esempio, sbaglia la parte laica a guardare all’istruzione privata come a un sistema indifferenziato: che cosa ha da spartire la scuola confessionale con le scuole professionali organizzate da soggetti economici? Ma nello stesso errore cadono coloro di parte cattolica che si mascherano dietro alla scuola privata "laica" per chiedere il finanziamento pubblico della scuola confessionale.

Di questo nodo non se ne viene a capo né con divieti generalizzati, né con aperture incondizionate: i primi sarebbero irragionevoli, perché lo stato davvero deprecabile della formazione professionale in Italia (causa prima della disoccupazione giovanile) dipende anche da questo, da non aver incentivato un maggior coinvolgimento delle forze produttive nella formazione; le seconde sarebbero inaccettabili e certamente contrarie a costituzione. Deve essere chiaro che la scuola "pubblica", ancorché gestita da privati (anche religiosi), è cosa del tutto diversa dalla scuola confessionale. A quest’ultima sono consentiti privilegi che la scuola pubblica certo non ha, e sono privilegi che portano persino all’attenuazione delle garanzie costituzionali dei diritti fondamentali. È chiaro infatti che la scuola "di tendenza", sia essa un istituto cattolico, una yeshivah talmudica o una scuola coranica, per la loro stessa sussistenza, hanno bisogno di personale docente che risponda esemplarmente ai dettami della fede, e possono trovarsi nella necessità di selezionare anche gli studenti e le loro famiglie. Ad esse va assicurata la massima libertà e autonomia, ma è quantomeno discutibile che vada concesso anche il finanziamento pubblico.

Da laico, a me sembra che il finanziamento pubblico debba essere riservato al sostegno del servizio pubblico: ma il servizio pubblico è caratterizzato dalle regole, non dal gestore. Nulla di strano se il servizio pubblico scolastico fosse gestito da un soggetto privato, anche a vocazione religiosa: purché esso resti un servizio pubblico, ispirato a quei princìpi di laicità e pluralismo che sono imposti dalla costituzione. Il che significa nessuna concessione alla catechesi (che non si deve fare con il soldo pubblico), nessuna al personale docente licenziabile ad nutum per volontà del vescovo, nessuna discriminazione per l’accesso. Sta poi al soggetto privato decidere se ha interesse a gestire, a queste condizioni, il servizio pubblico: se la sua motivazione è educativa o confessionale. Ma la sua scelta deve avvenire nell’àmbito di regole chiare e precise, ed anche con chiari e precisi ausili e persino incentivi, perché la pluralità di gestori è a sua volta garanzia di pluralismo

Di queste regole dovremmo incominciare a discutere. Questo fascicolo intende essere un primo contributo alla discussione, offrendo un panorama delle esperienze maturate dai principali partner europei. Poi la Rivista organizzerà una tavola rotonda su questi temi, promovendo una riflessione sui materiali qui prodotti: i contributi alla tavola rotonda verranno pubblicati in uno dei prossimi fascicoli. Ma siccome la direzione di questa Rivista sente molto l’importanza dell’argomento, l’apriremo volentieri a tutti i contributi che ci verranno in futuro,

legislativa degli ultimi anni. E forse la sussidiarietà "orizzontale" (quella che riguarda il riparto dei compiti tra il pubblico e il privato) è emersa come un’idea anche più aggressiva e innovativa della più tradizionale sussidiarietà "verticale" (quella che dovrebbe ispirare il riparto dei compiti tra i diversi livelli del pubblico potere).

Che la sussidiarietà sia divenuta uno slogan ripetuto all’infinito, argomento di convegni e seminari, criterio d’ispirazione del legislatore o norma di principio della stessa legislazione positiva non ha però affatto diminuito l’elevato tasso di equivocità, di imprecisione e di ambivalenza che l’ha caratterizzata da sempre. Ed anche ciò vale per la sussidiarietà "orizzontale" ancora di più che per quella "verticale". Non potrebbe essere diversamente, perché la sussidiarietà orizzontale si porta dietro tutte le implicazioni e gli equivoci che intorbidano il discorso attorno ai rapporti tra pubblico e privato, nei diversi contesti in cui esso si sviluppa: il mercato, la televisione, l’assistenza pubblica, la scuola…

Il problema è costituito anzitutto dai soggetti. Non è difficile individuare i soggetti protagonisti della sussidiarietà "verticale": lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni si sono fronteggiati in lunghe trattative per farsi riconoscere, funzione per funzione, compito per compito, il ruolo di ente principale, titolare "naturale" (perché più vicino ai cittadini, ma di scala sufficiente per assicurare l’efficienza) della funzione o del compito in questione. Si è posto semmai il problema dell’adeguatezza dell’ente (troppe e troppo piccole le Regioni, troppi e troppo polverizzati i Comuni, ecc.): questo ha schiuso qualche spiraglio al profilarsi di soggetti nuovi, quali le Città metropolitane, oppure a una legislazione capace di differenziare i ruoli all’interno della medesima classe di enti, in modo da riservare l’esercizio delle funzioni principali solo a quelli di essi che garantiscano una dimensione efficiente e spingere gli altri ad associarsi o fondersi. Sono gli obiettivi che hanno ispirato le leggi e i decreti Bassanini e che dovrebbero essere implementati dalla legislazione regionale. Ma quali sono i soggetti della sussidiarietà "orizzontale"? Qui il problema si fa davvero arduo, perché se i soggetti pubblici possono apparire inadeguati, dove sono i soggetti privati, quali garanzie di efficienza sono in grado di offrire, in che misura assicurano il perseguimento dell’interesse generale?

Il difficile dibattito sulla parità della scuola privata rispetto alla pubblica è solo la più recente delle occasioni in cui è apparsa la complessità del problema. Ancora più della sussidiarietà "verticale", quella "orizzontale" appare con nettezza costituire nulla più che un indirizzo di politica legislativa di larghissima massima, ben lontano ancora dal tradursi in norme operative; e per di più è qualcosa di sostanzialmente estraneo rispetto alla legislazione che dà (o dovrebbe dare) corpo alla sussidiarietà "verticale". Quest’ultima si può realizzare con una serie di provvedimenti di trasferimento delle funzioni dal centro verso la periferia, dalle Regioni verso gli enti locali. Ma sono sempre le stesse "funzioni pubbliche" quelle che migrano da un livello all’altro, mentre la sussidiarietà "orizzontale" è proprio della quantità e della qualità di quelle funzioni che si dovrebbe occupare, nel senso che di esse vorrebbe operare una drastica riduzione. Ma è una riduzione che non può essere operata dai decreti di attuazione della Bassanini, né dalle conseguenti leggi regionali di trasferimento agli enti locali.

Dovranno essere le leggi di settore a dare senso a uno slogan che tale ancora è rimasto e tale, probabilmente, ancora a lungo resterà. Perché è necessario immaginarsi in che modo verranno assicurati i princìpi e soddisfatte le esigenze che sino ad oggi hanno giustificato la permanenza in campo alle amministrazioni pubbliche delle funzioni che si vorrebbero lasciare ai soggetti privati. Già, appunto, ma a quali soggetti privati?

In certi casi l’individuazione dei soggetti privati non presenta difficoltà insormontabili. Per le prestazioni sanitarie e per l’assistenza sociale il processo di immissione dei soggetti privati nell’organizzazione dei servizi è già avanzato. Nella scuola siamo ancora in mare aperto, perché qui vi è qualche complicazione in più. Nessuno ospedale è concepito come "organizzazione di tendenza", tale da qualificare il proprio servizio in termini di confessione o di ideologia: le strutture private operano secondo standard, princìpi ed etiche non diversi da quelli delle strutture pubbliche. Non è difficile, perciò, immaginarsi che il servizio pubblico abbia un gestore privato accanto a quello pubblico, così come accade nella televisione o nelle telecomunicazioni.

È probabile che anche nella scuola sia possibile procedere nella stessa ottica, ma solo ad alcune condizioni. Forse si potrebbe prospettare un "servizio educativo pubblico" gestito da soggetti diversi, alcuni pubblici (e non necessariamente statali), altri privati: purché vi fossero regole comuni precise che disciplinano il modo in cui deve svolgersi il servizio pubblico, sia esso offerto dalle scuole pubbliche o dalle scuole private. Si dovrebbe garantire la libertà di accesso di tutti al servizio, senza preclusioni "di tendenza", la laicità dell’insegnamento (compresa l’assenza di simboli e di insegnamenti a carattere religioso), il pluralismo dei docenti, che dovrebbero essere insindacabili nelle loro scelte personali (mentre oggi, nelle scuole di tendenza, sono cacciabili ad nutum per ogni infrazione alla confessione), e così via.

Forse la gestione di un servizio pubblico così impostato non interesserebbe alcune delle attuali scuole confessionali, che sarebbero libere di proseguire la loro attività totalmente immerse "nel privato" (ossia, senza oneri per lo Stato), ma potrebbe sicuramente interessare altre scuole private, che non hanno l’indottrinamento come loro unico o principale obiettivo. Anche qui, in fondo, sarebbe un problema di scelta dei soggetti.

Un problema assai preciso di scelta dei soggetti si pone anche nel settore delle attività produttive. Qui ci troviamo di fronte anzitutto la questione delle Camere di commercio, che sono trasversali rispetto agli assi orizzontale e verticale della sussidiarietà: sono "pubblico" in quanto natura dell’ente, e sono "privato" in quanto a struttura rappresentativa; sono ancora "pubblico" per la natura delle funzioni amministrative loro assegnate dalla legge, e di nuovo "privato" per la pretesa di rappresentare gli interessi del mondo dell’impresa, ponendosi in oggettiva concorrenza con le associazioni imprenditoriali. La legge 580/1993 le ha sottoposte a una drastica riforma, ma, lasciando aperto il disegno della loro riorganizzazione, ha rinviato all’autonomia statutaria. La legge 59 e il decreto legislativo 112 ne hanno fatte salve le attribuzioni, ma non sono riusciti a delinearne meglio il ruolo. Le leggi regionali di riordino delle funzioni si muovono in direzioni divergenti: talvolta vi fanno menzione per mero adempimento formale delle previsioni del decreto Bassanini, in altri casi sembrano intenzionate a farne il pilastro dell’intervento regionale nei settori produttivi.

Proprio dalle Camere di commercio la Rivista intende iniziare un processo di riflessione sui soggetti e le forme della sussidiarietà "orizzontale". In questo fascicolo pubblichiamo una ricerca originale di Massimo Ferrante sulle Camere di commercio dopo la riforma del 1993, ricerca che offre spunti assai interessanti circa il ruolo delle Camere e la loro capacità di rappresentare gli interessi imprenditoriali. L’abbiamo sottoposta all’attenzione critica di Piero Bassetti, per sollecitare il commento di chi ha per tanto tempo vissuto al massimo livello l’esperienza camerale e il processo di riforma. Il commento non si è fatto attendere e, come il Lettore avrà modo di rilevare, non ha affatto deluso le aspettative.