N.5 1998 • ANNO XIX - settembre/ottobre
Editoriale/ Roberto Bin
Le riforme? Ora tocca alle Regioni

Il fallimento della Commissione Bicamerale ha frustrato le aspettative di tutti coloro che speravano che la riforma costituzionale creasse le condizioni di un rilancio delle Regioni e, più in generale, del sistema delle autonomie. Speranze non irragionevoli: il titolo V della Costituzione, che il costituente del ’47 aveva tracciato inventando le Regioni e lo Stato regionale, come forma intermedia tra lo Stato unitario e lo Stato federale, ha dimostrato, dopo quasi trent’anni di concreta esperienza regionale, di essere del tutto insufficiente come "regola" dei rapporti tra Stato e sistema delle autonomie. Tali rapporti sono perciò, oggi, privi di una regolamentazione costituzionale, quasi interamente improntati dalla legislazione ordinaria dello Stato e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, cui è spettato l’assai ingrato compito di costruire qualche tratto di ragionevole regolazione dei rapporti senza però poter disporre di un efficiente materiale costituzionale. L’"interesse nazionale", la "funzione di indirizzo e coordinamento", la "leale cooperazione", il "potere estero" delle Regioni sono, in fondo, invenzioni fortunate della Corte costituzionale – fortunate solo nel senso che hanno preso piede e costituiscono un punto di riferimento abbastanza certo e stabile nelle relazioni centro-periferia: così come opera della Corte costituzionale sono tutte le definizioni e le ridefinizioni, più o meno felici, dei "limiti" che incontrano le leggi regionali.

Come è riuscita la Corte costituzionale a svolgere questo compito? Credo di non peccare di eccesso di realismo dicendo che l’ha fatto accettando di occuparsi, nei termini giuridici propri di un giudice quale essa è, di questioni politiche che certo, in linea di principio, dovrebbero essere precluse ad un giudice. Per esempio, il costituente aveva correttamente intuito che decidere cosa rivesta il carattere di "interesse nazionale" appartenga alle decisioni politiche, non a quelle giuridiche, ed infatti lo aveva attribuito al Parlamento, non alla Corte costituzionale. Ma non aveva previsto che l’interesse nazionale potesse anche essere la giustificazione per la sottrazione di qualche funzione rientrante nelle materie attribuite alle Regioni dall’art. 117 Cost.; oppure il motivo utile a sostenere che una certa disposizione della legge statale costituisca "principio della materia" (o "norma fondamentale" di una "grande riforma economico-sociale"), e perciò un limite di legittimità della legge regionale; oppure la scusa per emanare un atto amministrativo di indirizzo e coordinamento, capace anch’esso di condizionare la legittimità della legislazione locale. Avrebbe potuto la Corte rifiutarsi di entrare nella valutazione di queste giustificazioni ispirate all’interesse nazionale? Se lo avesse fatto, avrebbe lasciato le Regioni alla mercé del legislatore statale, negando ad esse qualsiasi garanzia costituzionale delle loro competenze. Avrebbe tradito il suo stesso ruolo, quello del giudice che controlla che lo Stato e le Regioni non sconfinino dal campo d’azione loro rispettivamente assegnato dalla Costituzione. Il problema è che il confine è stato tracciato dalla stessa Costituzione con linee impalpabili (cosa significa "principio fondamentale", per esempio?) e non maneggiabili da un giudice (che ne sa lui cosa sia di "interesse nazionale"?). Perciò la Corte costituzionale ha dovuto far finta di ragionare da giudice maneggiando concetti di natura schiettamente politica.

Altrove questo non è successo. Non è successo in Germania, sistema tanto spesso preso ad esempio: lì una procedura decisionale basata sulla codeterminazione dello Stato e dei Länder ha creato garanzie costituzionali procedurali sufficienti a sdrammatizzare le garanzie costituzionali sostanziali di cui la Corte costituzionale è il custode. Se i Länder, tramite la loro rappresentanza nel Bundesrat, si dichiarano d’accordo ad affidare un certo compito legislativo allo Stato, la controversia non si pone e comunque non spetta ad un giudice risolverla. Perciò il Tribunale costituzionale federale tedesco ha potuto rifiutarsi di applicare la sussidiarietà come un concetto giuridico: ma lo stesso non ha potuto fare la Corte italiana che, in assenza di garanzie procedurali, ha dovuto far finta che distinguere tra i diversi livelli d’interesse possa essere una operazione affidabile ad un giudice.

In molti avevamo sperato che si potesse ottenere una riforma costituzionale del Parlamento e del procedimento legislativo capace di creare una procedura decisionale di codeterminazione, spostando così sul piano procedurale le garanzie costituzionali delle Regioni che, sul piano sostanziale, si erano rivelate assai precarie. Ma questa speranza è stata frustrata assai prima che la Bicamerale dichiarasse bancarotta. E allora? Allora ritorniamo alla situazione precedente?

In parte sì, in parte no. In parte sì, perché restiamo con un sistema di regolazione dei rapporti tra Stato e Regioni sostanzialmente privo di regole costituzionali e affidato alla mediazione politica e alle virtù arbitrali della Corte costituzionale. In parte no, perché diverse cose sono nel frattempo cambiate.

Il nuovo sistema elettorale per le Regioni, pur essendo senz’altro uno dei più brutti e contorti che mente umana abbia concepito, qualche risultato positivo l’ha provocato. Oggi ci sono Regioni del Polo e Regioni dell’Ulivo; ci sono Presidenti che possono rivendicare l’autorevolezza di un’investitura elettorale quasi diretta; ci sono esecutivi, forse non meno divisi che in passato, ma senza dubbio più stabili; c’è una Conferenza Stato-Regioni in cui può emergere un ruolo davvero importante della rappresentanza unitaria delle Regioni. La riprova è che le Regioni sono state presenti, autorevoli e propositive, in tutto il processo di riforma costituzionale, e lo sono ancora nel processo di attuazione della "Bassanini".

La stessa delega "Bassanini", con la cascata di provvedimenti che sta provocando, è un elemento di notevole novità. Si potranno discutere a lungo le scelte che si sono compiute, criticare il perdurante atteggiamento centralistico di certi politici o di certe burocrazie, stigmatizzare i tanti rinvii e le tante ambiguità che costellano i testi legislativi, ma è indubbio che l’attuazione delle "Bassanini" apre alle Regioni una pagina di storia nuova e importante. Non mi riferisco soltanto alle leggi regionali di diretta attuazione dei decreti delegati: poche saranno le Regioni che riusciranno, in tempi così brevi, a varare leggi che siano qualcosa di più di un adempimento formale dell’obbligo di legiferare posto dalla legge 59 e dal decreto 112, anche perché quest’ultimo, a sua volta, è stato in molte parti poco più di un adempimento formale della delega legislativa. Il vero processo riformatore inizierà dopo, quando si tratterà di mettere mano al riordino della legislazione regionale di settore per adeguarla ai nuovi trasferimenti verso le Regioni e da queste agli enti locali, nonché alle esigenze di snellimento, semplificazione e riforma che ora si impongono. È su questo terreno, io penso, che si giocherà la partita e le Regioni dovranno dimostrare di essere capaci di promuovere l’innovazione.

È vero: quando le Regioni metteranno mano alla riforma della loro legislazione si troveranno nella stessa situazione di incertezza di prima quanto alla individuazione degli spazi praticabili e dei princìpi e degli interessi che li limitano. Ancora una volta dovranno affrontare le censure del Governo e l’alea del ruolo arbitrale della Corte costituzionale. Ma, se le Regioni sapranno muoversi con coraggio, la loro posizione non sarà più quella di prima: troppe cose sono mutate.

Quando, verso la metà degli anni ’80, si sono diffuse le leggi-cornice dello Stato inzeppate di norme di dettaglio, la Corte disse che ciò andava bene, e che le Regioni non dovevano praticare il regionalismo delle lamentele, ma esercitare le loro competenze. Lo Stato, emanando leggi di disciplina concreta della materia, aveva lo strumento tecnico per imporre le propri scelte alle Regioni, le cui leggi precedenti venivano ipso facto abrogate; poi, se le Regioni ci tenevano, dovevano esercitare la loro potestà legislativa, emanando nuove leggi capaci di sostituirsi alle norme di dettaglio poste dallo Stato. Un meccanismo che ha scandalizzato Regioni e regionalisti, ma che, alla chetichella, ha introdotto in Italia il principio del regionalismo differenziato o "asimmetrico" ben prima che esso guadagnasse tanta sfortunata fortuna nei lavori della Bicamerale. Le Regioni attive potevano esercitare le loro potestà, quelle inerti non avrebbero ostacolato l’operatività delle riforme volute dallo Stato. È chiaro, la nuova legislazione regionale avrebbe dovuto rispettare i "princìpi fondamentali della materia" posti dalla legge dello Stato, ma questa non è affatto libera di indicare come principio quella o quell’altra norma: la Corte si riserva il potere di accreditare i princìpi, al di là di ogni "autoqualificazione", e non può essere altrimenti, dato che la Costituzione le affida il compito di garantire le attribuzioni regionali proprio contro le invasioni perpetrate dal legislatore ordinario. Siccome, già lo si è detto, il compito di dire cosa sia "principio" e cosa sia "dettaglio" appartiene più al ragionamento politico che a quello del giudice, la Corte senza dubbio si muove ispirata a criteri di opportunità. Quello che influisce di più sul giudizio della Corte è senza dubbio la credibilità della Regione: se questa cercherà di rimuovere le maglie della legislazione statale, per esempio, per sfondare le norme di contenimento del debito pubblico o la rete di protezione dei beni ambientali, certo la Corte costituzionale impugnerà le armi dei "princìpi" o dell’"interesse nazionale"; ma se, nell’opera di riforma della propria legislazione, la Regione proponesse un disegno organico e coerente che osasse innovare molte scelte della legislazione statale, che motivo avrebbe la Corte di censurare le scelte regionali e adeguarsi ai retrivi rilievi governativi? La fluidità del limite dei princìpi e dell’interesse nazionale gioca a sfavore delle Regioni solo dove le Regioni non riescano a conquistare prestigio e credibilità, non certo dove esse sanno presentarsi come fautrici dell’innovazione legislativa e capaci di una legislazione coerente e intelligente.

Oltretutto i princìpi invecchiano. I princìpi di una legge quadro che risale a vent’anni fa – si pensi alla legge sulla contabilità regionale, per esempio – e che allora rappresentavano l’inderogabile forza innovatrice della riforma, oggi sono svaporati, forse anche compromessi dalla legislazione statale di dettaglio, comunque meno persuasivi nell’accreditarsi come limite della legislazione regionale. Almeno sul piano simbolico, le "Bassanini" sono un segno di innovazione, dopo il quale la legislazione previgente non è più la stessa di prima. Sta allora alle Regioni cogliere l’occasione, avere la capacità di produrre un disegno riformatore forte e coerente, capace di persuadere e di imporsi sulla vecchia legislazione dello Stato: e magari di conquistare anche il consenso degli enti locali, cui le Regioni devono proporsi come un legislatore migliore, non più tirannico, di quello statale. Si tratta di superare, prima delle censure del Governo e di quelle (che probabilmente non ci saranno) della Corte costituzionale, la peggiore di tutte le censure: l’autocensura.