Il fallimento della Commissione Bicamerale ha frustrato le aspettative di tutti
coloro che speravano che la riforma costituzionale creasse le condizioni di un rilancio
delle Regioni e, più in generale, del sistema delle autonomie. Speranze non
irragionevoli: il titolo V della Costituzione, che il costituente del 47 aveva
tracciato inventando le Regioni e lo Stato regionale, come forma intermedia tra lo Stato
unitario e lo Stato federale, ha dimostrato, dopo quasi trentanni di concreta
esperienza regionale, di essere del tutto insufficiente come "regola" dei
rapporti tra Stato e sistema delle autonomie. Tali rapporti sono perciò, oggi, privi di
una regolamentazione costituzionale, quasi interamente improntati dalla legislazione
ordinaria dello Stato e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, cui è spettato
lassai ingrato compito di costruire qualche tratto di ragionevole regolazione dei
rapporti senza però poter disporre di un efficiente materiale costituzionale.
L"interesse nazionale", la "funzione di indirizzo e
coordinamento", la "leale cooperazione", il "potere estero" delle
Regioni sono, in fondo, invenzioni fortunate della Corte costituzionale fortunate
solo nel senso che hanno preso piede e costituiscono un punto di riferimento abbastanza
certo e stabile nelle relazioni centro-periferia: così come opera della Corte
costituzionale sono tutte le definizioni e le ridefinizioni, più o meno felici, dei
"limiti" che incontrano le leggi regionali.
Come è riuscita la Corte
costituzionale a svolgere questo compito? Credo di non peccare di eccesso di realismo
dicendo che lha fatto accettando di occuparsi, nei termini giuridici propri di un
giudice quale essa è, di questioni politiche che certo, in linea di principio, dovrebbero
essere precluse ad un giudice. Per esempio, il costituente aveva correttamente intuito che
decidere cosa rivesta il carattere di "interesse nazionale" appartenga alle
decisioni politiche, non a quelle giuridiche, ed infatti lo aveva attribuito al
Parlamento, non alla Corte costituzionale. Ma non aveva previsto che linteresse
nazionale potesse anche essere la giustificazione per la sottrazione di qualche funzione
rientrante nelle materie attribuite alle Regioni dallart. 117 Cost.; oppure il
motivo utile a sostenere che una certa disposizione della legge statale costituisca
"principio della materia" (o "norma fondamentale" di una "grande
riforma economico-sociale"), e perciò un limite di legittimità della legge
regionale; oppure la scusa per emanare un atto amministrativo di indirizzo e
coordinamento, capace anchesso di condizionare la legittimità della legislazione
locale. Avrebbe potuto la Corte rifiutarsi di entrare nella valutazione di queste
giustificazioni ispirate allinteresse nazionale? Se lo avesse fatto, avrebbe
lasciato le Regioni alla mercé del legislatore statale, negando ad esse qualsiasi
garanzia costituzionale delle loro competenze. Avrebbe tradito il suo stesso ruolo, quello
del giudice che controlla che lo Stato e le Regioni non sconfinino dal campo dazione
loro rispettivamente assegnato dalla Costituzione. Il problema è che il confine è stato
tracciato dalla stessa Costituzione con linee impalpabili (cosa significa "principio
fondamentale", per esempio?) e non maneggiabili da un giudice (che ne sa lui cosa sia
di "interesse nazionale"?). Perciò la Corte costituzionale ha dovuto far finta
di ragionare da giudice maneggiando concetti di natura schiettamente politica.
Altrove questo non è successo. Non è
successo in Germania, sistema tanto spesso preso ad esempio: lì una procedura decisionale
basata sulla codeterminazione dello Stato e dei Länder ha creato garanzie costituzionali
procedurali sufficienti a sdrammatizzare le garanzie costituzionali sostanziali di cui la
Corte costituzionale è il custode. Se i Länder, tramite la loro rappresentanza nel
Bundesrat, si dichiarano daccordo ad affidare un certo compito legislativo allo
Stato, la controversia non si pone e comunque non spetta ad un giudice risolverla. Perciò
il Tribunale costituzionale federale tedesco ha potuto rifiutarsi di applicare la
sussidiarietà come un concetto giuridico: ma lo stesso non ha potuto fare la Corte
italiana che, in assenza di garanzie procedurali, ha dovuto far finta che distinguere tra
i diversi livelli dinteresse possa essere una operazione affidabile ad un giudice.
In molti avevamo sperato che si
potesse ottenere una riforma costituzionale del Parlamento e del procedimento legislativo
capace di creare una procedura decisionale di codeterminazione, spostando così sul piano
procedurale le garanzie costituzionali delle Regioni che, sul piano sostanziale, si erano
rivelate assai precarie. Ma questa speranza è stata frustrata assai prima che la
Bicamerale dichiarasse bancarotta. E allora? Allora ritorniamo alla situazione precedente?
In parte sì, in parte no. In parte
sì, perché restiamo con un sistema di regolazione dei rapporti tra Stato e Regioni
sostanzialmente privo di regole costituzionali e affidato alla mediazione politica e alle
virtù arbitrali della Corte costituzionale. In parte no, perché diverse cose sono nel
frattempo cambiate.
Il nuovo sistema elettorale per le
Regioni, pur essendo senzaltro uno dei più brutti e contorti che mente umana abbia
concepito, qualche risultato positivo lha provocato. Oggi ci sono Regioni del Polo e
Regioni dellUlivo; ci sono Presidenti che possono rivendicare lautorevolezza
di uninvestitura elettorale quasi diretta; ci sono esecutivi, forse non meno divisi
che in passato, ma senza dubbio più stabili; cè una Conferenza Stato-Regioni in
cui può emergere un ruolo davvero importante della rappresentanza unitaria delle Regioni.
La riprova è che le Regioni sono state presenti, autorevoli e propositive, in tutto il
processo di riforma costituzionale, e lo sono ancora nel processo di attuazione della
"Bassanini".
La stessa delega
"Bassanini", con la cascata di provvedimenti che sta provocando, è un elemento
di notevole novità. Si potranno discutere a lungo le scelte che si sono compiute,
criticare il perdurante atteggiamento centralistico di certi politici o di certe
burocrazie, stigmatizzare i tanti rinvii e le tante ambiguità che costellano i testi
legislativi, ma è indubbio che lattuazione delle "Bassanini" apre alle
Regioni una pagina di storia nuova e importante. Non mi riferisco soltanto alle leggi
regionali di diretta attuazione dei decreti delegati: poche saranno le Regioni che
riusciranno, in tempi così brevi, a varare leggi che siano qualcosa di più di un
adempimento formale dellobbligo di legiferare posto dalla legge 59 e dal decreto
112, anche perché questultimo, a sua volta, è stato in molte parti poco più di un
adempimento formale della delega legislativa. Il vero processo riformatore inizierà dopo,
quando si tratterà di mettere mano al riordino della legislazione regionale di settore
per adeguarla ai nuovi trasferimenti verso le Regioni e da queste agli enti locali,
nonché alle esigenze di snellimento, semplificazione e riforma che ora si impongono. È
su questo terreno, io penso, che si giocherà la partita e le Regioni dovranno dimostrare
di essere capaci di promuovere linnovazione.
È vero: quando le Regioni metteranno
mano alla riforma della loro legislazione si troveranno nella stessa situazione di
incertezza di prima quanto alla individuazione degli spazi praticabili e dei princìpi e
degli interessi che li limitano. Ancora una volta dovranno affrontare le censure del
Governo e lalea del ruolo arbitrale della Corte costituzionale. Ma, se le Regioni
sapranno muoversi con coraggio, la loro posizione non sarà più quella di prima: troppe
cose sono mutate.
Quando, verso la metà degli anni
80, si sono diffuse le leggi-cornice dello Stato inzeppate di norme di dettaglio, la
Corte disse che ciò andava bene, e che le Regioni non dovevano praticare il regionalismo
delle lamentele, ma esercitare le loro competenze. Lo Stato, emanando leggi di disciplina
concreta della materia, aveva lo strumento tecnico per imporre le propri scelte alle
Regioni, le cui leggi precedenti venivano ipso facto abrogate; poi, se le Regioni ci
tenevano, dovevano esercitare la loro potestà legislativa, emanando nuove leggi capaci di
sostituirsi alle norme di dettaglio poste dallo Stato. Un meccanismo che ha scandalizzato
Regioni e regionalisti, ma che, alla chetichella, ha introdotto in Italia il principio del
regionalismo differenziato o "asimmetrico" ben prima che esso guadagnasse tanta
sfortunata fortuna nei lavori della Bicamerale. Le Regioni attive potevano esercitare le
loro potestà, quelle inerti non avrebbero ostacolato loperatività delle riforme
volute dallo Stato. È chiaro, la nuova legislazione regionale avrebbe dovuto rispettare i
"princìpi fondamentali della materia" posti dalla legge dello Stato, ma questa
non è affatto libera di indicare come principio quella o quellaltra norma: la Corte
si riserva il potere di accreditare i princìpi, al di là di ogni
"autoqualificazione", e non può essere altrimenti, dato che la Costituzione le
affida il compito di garantire le attribuzioni regionali proprio contro le invasioni
perpetrate dal legislatore ordinario. Siccome, già lo si è detto, il compito di dire
cosa sia "principio" e cosa sia "dettaglio" appartiene più al
ragionamento politico che a quello del giudice, la Corte senza dubbio si muove ispirata a
criteri di opportunità. Quello che influisce di più sul giudizio della Corte è senza
dubbio la credibilità della Regione: se questa cercherà di rimuovere le maglie della
legislazione statale, per esempio, per sfondare le norme di contenimento del debito
pubblico o la rete di protezione dei beni ambientali, certo la Corte costituzionale
impugnerà le armi dei "princìpi" o dell"interesse nazionale";
ma se, nellopera di riforma della propria legislazione, la Regione proponesse un
disegno organico e coerente che osasse innovare molte scelte della legislazione statale,
che motivo avrebbe la Corte di censurare le scelte regionali e adeguarsi ai retrivi
rilievi governativi? La fluidità del limite dei princìpi e dellinteresse nazionale
gioca a sfavore delle Regioni solo dove le Regioni non riescano a conquistare prestigio e
credibilità, non certo dove esse sanno presentarsi come fautrici dellinnovazione
legislativa e capaci di una legislazione coerente e intelligente.
Oltretutto i princìpi invecchiano. I
princìpi di una legge quadro che risale a ventanni fa si pensi alla legge
sulla contabilità regionale, per esempio e che allora rappresentavano
linderogabile forza innovatrice della riforma, oggi sono svaporati, forse anche
compromessi dalla legislazione statale di dettaglio, comunque meno persuasivi
nellaccreditarsi come limite della legislazione regionale. Almeno sul piano
simbolico, le "Bassanini" sono un segno di innovazione, dopo il quale la
legislazione previgente non è più la stessa di prima. Sta allora alle Regioni cogliere
loccasione, avere la capacità di produrre un disegno riformatore forte e coerente,
capace di persuadere e di imporsi sulla vecchia legislazione dello Stato: e magari di
conquistare anche il consenso degli enti locali, cui le Regioni devono proporsi come un
legislatore migliore, non più tirannico, di quello statale. Si tratta di superare, prima
delle censure del Governo e di quelle (che probabilmente non ci saranno) della Corte
costituzionale, la peggiore di tutte le censure: lautocensura.