N.4 1998 • ANNO XIX - luglio/agosto
Editoriale/ Luigi Mariucci
Stato, Regioni ed enti locali alla prova del federalismo amministrativo

Il processo avviato con l’emanazione della legge 59/1997 costituisce senza dubbio un passo importante per la riforma dell’amministrazione pubblica italiana. Tale processo potrebbe ridisegnare in maniera significativa l’articolazione dei poteri tra le istituzioni di Governo e, soprattutto, il concreto svolgimento di alcune cruciali politiche pubbliche. A venti anni dal decreto 616 esso riapre una prospettiva dal respiro non troppo corto per ampliare gli spazi di autonomia dei sistemi regionali.

Come è noto, in questi venti anni i primi entusiasmi per la c.d. "seconda regionalizzazione" sono stati rapidamente spenti da una sua interpretazione centralistica tanto al livello statale che, talvolta, al livello delle stesse Regioni. Almeno a partire dall’inizio degli anni ottanta è divenuto evidente che le rapide trasformazioni dell’ambiente economico internazionale e la crescente differenziazione (in positivo ed in negativo) dei sistemi sociali regionali rendevano necessario un radicale ripensamento delle modalità operative della pubblica amministrazione ed una nuova articolazione dei poteri tra "centro" e "periferie".

Nel corso degli anni ottanta e della prima metà degli anni novanta sono inoltre profondamente cambiate la cultura e le aspettative dei cittadini nei confronti della politica e, prima ancora, nei confronti della amministrazione della cosa pubblica. Nello stesso periodo a tale cambiamento culturale in vari paesi europei hanno fatto seguito riforme particolarmente incisive, alcune delle quali, anche in paesi con uno stato tradizionalmente accentratore, hanno spostato verso le autorità regionali e locali competenze e poteri. Per rispondere a questa sfida l’Italia ha dovuto invece attendere la crisi del suo precedente sistema partitico, la minaccia di movimenti di protesta localistici e che la pressione della convergenza comunitaria facesse sentire il suo morso.

L’urgenza dettata dalle nuove condizioni politiche (interne ed internazionali) ha comunque finalmente creato una finestra di opportunità per avviare una prima significativa innovazione istituzionale. Non può sfuggire peraltro che tale innovazione prende corpo in un momento in cui, rispetto alla "seconda regionalizzazione", e probabilmente anche tra coloro che furono protagonisti di quella esperienza, si è verificato un cambiamento nella concezione del ruolo delle istituzioni pubbliche, della loro organizzazione, del rapporto e dell’idea stessa di "pubblico" e "privato", di "stato" e "mercato", di una radicalità inimmaginabile. Tanto basta a comprendere quanto sia necessario oggi cogliere questa occasione per introdurre il massimo di discontinuità possibile. Il decentramento non può essere in nessun modo disgiunto da una incisiva semplificazione dei procedimenti amministrativi, da un complessivo snellimento degli apparati pubblici, dall’apertura a forme di concorrenza nella gestione dei servizi pubblici locali.

L’attuazione della legge 59/1997 mette dunque, a questo punto, sia lo Stato centrale sia le istituzioni territoriali di fronte ad una prova della verità. L’amministrazione dello Stato, centrale e periferica, è chiamata a dimostrare la volontà di liberarsi di compiti impropri, di alleggerire i propri apparati, di demandare ampie funzioni all’autogoverno dei sistemi regionali. Le istituzioni territoriali (regioni ed enti locali) devono a loro volta dimostrare concretamente che spostare poteri e funzioni dal centro alla periferia serve a dare ai cittadini servizi più efficienti, serve, in altri termini, a governare meglio. Ciò richiede di avviare una profonda trasformazione delle stesse istituzioni territoriali. La riforma federalista in sostanza non consiste in un puro e semplice trasferimento di poteri dal centro alla periferia, ma in un contestuale cambiamento sia delle istituzioni centrali che di quelle periferiche.

Non si può sottovalutare tuttavia il fatto che il "federalismo amministrativo a costituzione invariata" aveva, nelle intenzioni delle stesse autorità di Governo che lo hanno promosso, ed ha, nella logica che governa le istituzioni, uno strettissimo legame con la prospettiva di una incisiva revisione dell’assetto costituzionale.

Il decentramento amministrativo avrebbe dovuto infatti anticipare il profilo di una più profonda trasformazione dell’assetto istituzionale dello Stato e del resto in una tale trasformazione non può che trovare il suo naturale esito. Privo della prospettiva di un complessivo riassetto dei poteri e delle responsabilità di governo, dei processi di rappresentanza tra centro e periferia e dell’ordinamento fiscale, il decentramento amministrativo potrebbe provocare una crescita, piuttosto che una diminuzione, del grado di burocratizzazione del sistema-paese. Privato di quella prospettiva, inoltre, il processo di decentramento rischia di rimanere insabbiato tra rinvii e disapplicazioni di fatto.

Non si può quindi non esprimere la più viva preoccupazione per l’esito del confronto parlamentare intorno alle riforme costituzionali.

Tale esito non solo lascia insoddisfatta ancora una volta l’esigenza di un complessivo rinnovamento dell’assetto istituzionale del nostro paese che la società italiana ha ripetutamente dato prova di auspicare, ma rischia di produrre seri problemi e contraddizioni insanabili nella prosecuzione delle politiche di decentramento e di riforma amministrativa nelle quali oggi le Regioni e gli enti locali stanno investendo con convinzione tutte le loro energie. Questo scenario risulta peraltro ancor più ingiustificabile se si considera che nel merito delle proposte di riforma costituzionale riferite alla revisione della forma di stato, anche grazie all’iniziativa delle Regioni e degli enti locali, si è registrato un largo accordo tra le forze politiche, mentre i motivi di conflitto che hanno interrotto il cammino delle riforme hanno riguardato essenzialmente i temi della forma di governo e della giustizia.

Non si può sottacere inoltre che, nonostante i miglioramenti introdotti a seguito delle proposte emendative formulate da Regioni, Comuni e Province, gli stessi decreti emanati dal Governo in attuazione della legge n. 59 del 1997, quelli in materia di agricoltura, servizi per l’impiego, trasporto pubblico locale, commercio, così come il decreto legislativo 31 marzo 1998, n 112, contengono luci ed ombre. In alcuni settori si compie un passo in avanti verso il decentramento o quanto meno verso la compiuta attuazione dei principi regionalisti e autonomisti sanciti dalla Costituzione del 1948, mentre in altri settori si registrano scarsi progressi, quando non rischi di arretramento.

Le misure di riordino, soppressione o trasferimento di organismi delle amministrazioni statali (corpo forestale dello Stato, vigili del fuoco, provveditorati alle opere pubbliche, Anas, autorità competenti in materia di acque, ecc.) vengono in generale rinviate a provvedimenti futuri, il che lascia irrisolto il problema delle strutture attraverso cui gli enti territoriali potranno gestire le nuove funzioni.

Del tutto aperta rimane inoltre la questione finanziaria. Lo schema adottato al riguardo dai decreti legislativi prevede infatti che solo con successivi decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri vengano individuate le risorse finanziarie da trasferire a regioni ed enti locali in relazione alle nuove funzioni conferite nei diversi settori dell’intervento pubblico.

Per quanti accorgimenti formali siano stati adottati rimane dunque evidente il rischio che attraverso il decentramento delle funzioni gli enti territoriali siano gravati di oneri aggiuntivi a cui non corrisponda una adeguata dotazione di risorse. In altri termini non siamo in grado di escludere che il decentramento amministrativo finisca per produrre un trasferimento verso le Regioni e gli enti locali delle contraddizioni e degli squilibri della finanza statale. In secondo luogo è evidente il rischio che, procedendo attraverso la tecnica del conferimento di singoli capitoli del bilancio statale per i diversi settori, gli enti territoriali si vedano ancora più vincolati e irrigiditi nell’esercizio delle politiche di bilancio. Per tali motivi Regioni, Comuni e Province hanno già da qualche mese chiarito che "una volta disegnati, in sede regionale, i modelli di riparto delle funzioni sarà necessario definire, per ogni livello di governo territoriale, uno strumento finanziario generale per far fronte alle nuove funzioni. [...] Per le Regioni occorrerà prevedere, a quel momento, la compartecipazione al gettito di un grande tributo erariale (Irpef, Iva)" (cfr. Parere di Regioni, Comuni, Province del 5 marzo 1998).

In conclusione, restano ancora aperti due fronti essenziali di verifica della effettiva volontà del Governo di procedere verso una seria riforma in senso federalista: le misure da adottare in ordine alla riorganizzazione degli apparati burocratici dello Stato, centrali e periferici, e la definizione della questione finanziaria. Su questi temi verrà sviluppata una coerente iniziativa da parte dei rappresentanti dei governi territoriali.

Sarebbe stato però fin troppo facile fare leva sui limiti e sulle insufficienze della legislazione nazionale, sulle incertezze suscitate dall’arresto del processo costituente e rinunciare così a cogliere tutte le positive opportunità che il "federalismo amministrativo" pure offre.

In questi mesi le Regioni italiane hanno lavorato alacremente e tra qualche mese potremo misurare la qualità di questo sforzo.

La giunta regionale dell’Emilia-Romagna, per parte sua, ha scelto di elaborare un disegno di legge organico – non una mera proposta di legge-manifesto – con il quale non solo vengono allocate le funzioni di nuovo conferimento, ma vengono anche introdotte innovazioni di carattere ordinamentale tese a ridefinire, in chiave federalista, i tratti del sistema politico-amministrativo regionale e locale.

Per un verso si è ridisegnato il rapporto tra istituzioni territoriali di governo, fondandolo sulla valorizzazione della autonomia di ogni ente ed al tempo stesso sul rafforzamento dei meccanismi di raccordo inter-istituzionale diretti ad assicurare una più forte coesione del sistema di governo regionale nel suo complesso. Per altro verso si è proceduto ad una sistematica revisione della legislazione regionale preesistente, orientata alla semplificazione delle procedure, alla delegificazione e all’alleggerimento complessivo degli apparati.

Il progetto è, peraltro, il risultato di un ampio e sistematico confronto con gli enti locali e con i soggetti rappresentativi della società regionale. Non poteva che essere così, dato il carattere che gli si è voluto dare: quello di un atto ordinamentale di riforma del sistema regionale e locale con il quale intendiamo iniziare a praticare quel federalismo che già oggi è possibile.