N.3-4 2001 ANNO XXII - maggio/agosto
Editoriale/Roberto Bin
Dopo la riforma

Le riforme, e le riforme costituzionali in particolare, dovrebbero servire a risolvere i problemi e le difficoltà che sono emerse dall’esperienza passata. Se così fosse, esse dovrebbero produrre una netta diminuzione del contenzioso e, in base alla capacità di realizzare questo risultato, se ne potrebbe apprezzare la bontà.
La riforma del Titolo V della Costituzione, che ha superato il referendum costituzionale, non sembra affatto idonea a risolvere i problemi del passato: di problemi, anzi, sembra sollevarne di nuovi e minaccia perciò di estendere il contenzioso. La sua scrittura affrettata, l’aggiramento di alcuni nodi cruciali, l’evasione dai problemi centrali delle relazioni centro-periferia: tutto ciò rende davvero difficile comprendere come la riforma potrà essere concretamente applicata. Tuttavia è un fatto positivo che essa abbia chiuso felicemente il suo iter: almeno è servita a smuovere la grande macina delle riforme, macina ormai bloccata da troppo tempo.
Se il referendum avesse bocciato la riforma, quando mai il meccanismo della riforma del Titolo V sarebbe stato riavviato?
La situazione era ormai arrivata ad un punto critico: le regole costituzionali del vecchio Titolo V non avevano più alcuna capacità regolativa delle relazioni tra Stato, Regioni ed enti locali ed erano state soppiantate da prassi, leggi ordinarie, sentenze della Corte costituzionale. Una riforma era divenuta necessaria quanto meno per restaurare la legalità costituzionale.
Che il processo di riforma fosse avviato era dunque indispensabile: ma ora va attentamente controllato, altrimenti la grande macina rischia di continuare in una corsa impazzita tavolgendo le istituzioni. Scavare il percorso lungo il quale la riforma dovrà scorrere è compito che si ripartisce tra tutti i livelli di governo e tra gli organi che compongono ogni livello.

Grava sullo Stato, anzitutto, e in primo luogo sul Parlamento. Le Camere dovrebbero mettere urgentemente mano ai propri regolamenti per disciplinare la partecipazione dei rappresentanti regionali alla Commissione parlamentare per le questioni regionali, secondo quanto è previsto da quella svagata norma di chiusura della legge costituzionale di riforma. Certo non è una soluzione seria e definitiva del nodo serio e determinante della partecipazione regionale alle decisioni "federali", ma piuttosto una di quelle fantasiose soluzioni arredative che hanno fortuna presso i nostri "architetti costituzionali", quale la famosa formula "due Camere e un camerino" che era emersa in Bicamerale e che è bastato un corrosivo elzeviro di Montanelli a far crollare.
Tuttavia si tratta pur sempre di un passo importante in una direzione giusta, ed oltretutto di un passo che verrebbe fatto nel momento più opportuno. Se è vero che la riforma del Titolo V ha poca concretezza, ciò significa che la sua applicazione dipenderà in larga parte da decisioni politiche successive: perché la riforma non si blocchi definitivamente è perciò indispensabile che queste decisioni siano assunte in un clima di accettabile collaborazione tra Stato, Regioni ed enti locali. In questa prospettiva la soluzione prevista dalla riforma costituzionale rappresenta un indubbio passo avanti rispetto alla situazione attuale, che è interamente incentrata sul ruolo delle Commissioni Stato-Regioni, Stato-autonomie locali ecc.
Queste sono sedi squisitamente politiche, prive o quasi di garanzie formali e di immediati riflessi giuridici; mentre la "regionalizzazione" della Commissione parlamentare si rifletterebbe direttamente sul procedimento legislativo.
Se si dovesse indicare un ordine di priorità nelle mosse da compiere per attuare la riforma costituzionale, la prima dovrebbe essere proprio quella appena indicata: numerosi sono infatti gli atti legislativi necessari per attuare il nuovo Titolo V si pensi anche solo alle leggi "di principio" nelle materie attribuite alla competenza concorrente dello Stato, alle leggi in materia finanziaria, alle leggi che determinano "ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" per le Regioni ordinarie, in base al nuovo art. 116, alla legge che disciplina la "partecipazione ascensionale" delle regioni alle politiche comunitarie, ecc.), ed è indispensabile che questa legislazione si definisca attraverso procedure di cooperazione ex ante, e non di scontro giurisdizionale ex post. Emerge così chiaramente anche quale ruolo deve essere svolto dal legislatore nazionale.
Un ruolo positivo, accanto al quale si prospetta però anche un ruolo, per così dire, negativo, cioè il compito di prendere sul serio la riforma del Titolo V e di evitare perciò di continuare a produrre leggi in palese contrasto con le nuove regole costituzionali. Già la precedente legislatura non è, sotto questo profilo, senza colpe: la stessa maggioranza che ha fortemente voluto la riforma non ha esitato a produrre, nello stesso tempo in cui faceva avanzare il procedimento di revisione costituzionale, alcune leggi che contraddicevano o comunque mostravano di ignorare il nuovo riparto di funzioni. Ma oggi, entrando in vigore la riforma, un preciso vincolo giuridico si oppone alla legislazione ordinaria che mostra di ignorarla. Prima che siano le Regioni ad opporsi ad essa in sede giurisdizionale, è lo stesso Presidente della Repubblica ad essere chiamato a svolgere il suo ruolo di garanzia, rinviando alle Camere le leggi incompatibili con il nuovo assetto. È un ruolo importante e indispensabile, l’unico strumento che possa evitare che tutto il peso della riforma finisca con il gravare sulla Corte costituzionale. Infatti la prospettiva più allarmante è proprio questa: che la Corte costituzionale, a cui alcuni settori del mondo politico rimproverano aspramente e ingenerosamente di aver contrastato in passato la realizzazione del disegno autonomistico, sia nuovamente chiamata a gestire con i soli strumenti a sua disposizione, che sono quelli tipici di un giudice, l’attuazione di una riforma costituzionale che, come si è detto, necessità di ulteriori scelte politiche per poter funzionare. Se il sistema politico non adempie ai suoi doveri, la Corte costituzionale resterebbe schiacciata da una micidiale alternativa: o denegare giustizia, abdicando alla sua funzione di giudice, e dire quello che mai ha detto in passato, cioè che l’attuazione del Titolo V è una questione della politica che non può essere risolta da un giudice; oppure accettare di continuare nella sua vecchia prassi di supplente della politica, riprendendo ad inventare strumenti e meccanismi che consentano al sistema di funzionare. Nella prima ipotesi il risultato sarebbe che vengono meno le regole e le garanzie costituzionali del disegno autonomistico e la politica la farebbe da padrona; nella seconda ipotesi la Corte si ritroverebbe sovresposta, al centro di critiche e attacchi politici. Tutto ciò è da evitare e il Presidente della Repubblica non può non avvertirne l’esigenza.

Ma anche sulle Regioni gravano responsabilità di notevole peso che impongono ad esse di muoversi su versanti diversi. Il primo le porta ad essere protagoniste al centro: ad intavolare le trattative con il Governo per stringere le intese politiche necessarie all’attuazione della riforma; a bussare alla porta della Camere per sollecitare le modifiche dei loro regolamenti; a rivolgersi al Presidente della Repubblica per chiederne l’intervento quando il Parlamento approvasse leggi contrastanti con le nuove regole costituzionali; a promuovere, come extrema ratio, il contenzioso davanti alla Corte. Dalla capacità delle Regioni di attenuare le reciproche diffidenze politiche e fissare alcuni punti strategici comuni da portare insieme al tavolo delle trattative politiche dipende per una certa quota la direzione in cui muoverà la ruota della riforma.
Per un’altra quota essa dipende dalla capacità delle Regioni di stringere alleanze con i "propri" enti locali. Finché il timore del "centralismo regionale" – timore, in certi casi, tutt’altro che ingiustificato – spingerà gli enti locali, e soprattutto le loro rappresentanza nazionali, a cercare protezione al centro, il Governo resterà arbitro incontrastato dei destini delle autonomie regionali e di quelle locali.
D’altra parte le incertezze su come opererà la riforma costituzionale pesano fortemente anche sul governo locale: si pensi anche soltanto alla questione dei controlli o all’esercizio dei poteri sostitutivi, questioni delicatissime e di immediata attualità su cui non v’è alcuna chiarezza. È importante che le Regioni onorino il loro ruolo ed esercitino le loro attribuzione: e che riscoprano in questo momento la funzione della legge come strumento di razionalizzazione e di certezza. Questo è un punto di estrema importanza. Se la riforma del Titolo V è da prendere sul serio, il quadro che si prospetta è marcatamente diverso dal passato. In passato, il vincolo che sottoponeva la legge regionale ai princìpi della legislazione statale di settore faceva sì che l’innovazione legislativa (e l’innovazione amministrativa, per la parte in cui essa dipendeva dalla legge) fossero monopolio dello Stato (o della normativa comunitaria). Oggi questo non è più vero. Anzi, il principale effetto del nuovo meccanismo di distribuzione delle competenze è proprio di spezzare il monopolio statale e spostare in larga parte sulle Regioni il compito dell’innovazione legislativa.
Ciò vale sicuramente per le materie "residuali", non rientranti nella competenza esclusiva o concorrente dello Stato: ma, ovviamente, molti spazi si apriranno anche nella legislazione concorrente. Le politiche locali dipenderanno in massima parte dalle regole che detterà la Regione: allo stesso tempo, però, l’attuazione amministrativa di quelle politiche sarà in massima parte affidata all’amministrazione locale, che sarà liberà di scegliere le modalità con cui procedere (gli enti locali, come dispone il nuovo art. 117.5, "hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite").
Non possono sfuggire le implicazioni che da ciò derivano per i rapporti che legheranno la Regione con il "sistema amministrativo" regionale. Fin da subito, sarà compito delle leggi regionali tagliare i legami con la "vecchia" legislazione statale di settore e con le relative soluzioni organizzative e procedurali ed aprire la strada all’innovazione. Lo si può fare senza un foedus che unisca chi fa le leggi e chi ne organizza l’attuazione amministrativa?