Le riforme, e le
riforme costituzionali in particolare, dovrebbero servire a risolvere i problemi e le
difficoltà che sono emerse dallesperienza passata. Se così fosse, esse dovrebbero
produrre una netta diminuzione del contenzioso e, in base alla capacità di realizzare
questo risultato, se ne potrebbe apprezzare la bontà.
La riforma del Titolo V della Costituzione, che ha superato il referendum costituzionale,
non sembra affatto idonea a risolvere i problemi del passato: di problemi, anzi, sembra
sollevarne di nuovi e minaccia perciò di estendere il contenzioso. La sua scrittura
affrettata, laggiramento di alcuni nodi cruciali, levasione dai problemi
centrali delle relazioni centro-periferia: tutto ciò rende davvero difficile comprendere
come la riforma potrà essere concretamente applicata. Tuttavia è un fatto positivo che
essa abbia chiuso felicemente il suo iter: almeno è servita a smuovere la grande
macina delle riforme, macina ormai bloccata da troppo tempo.
Se il referendum avesse bocciato la riforma, quando mai il meccanismo della riforma del
Titolo V sarebbe stato riavviato?
La situazione era ormai arrivata ad un punto critico: le regole costituzionali del vecchio
Titolo V non avevano più alcuna capacità regolativa delle relazioni tra Stato, Regioni
ed enti locali ed erano state soppiantate da prassi, leggi ordinarie, sentenze della Corte
costituzionale. Una riforma era divenuta necessaria quanto meno per restaurare la
legalità costituzionale.
Che il processo di riforma fosse avviato era dunque indispensabile: ma ora va attentamente
controllato, altrimenti la grande macina rischia di continuare in una corsa impazzita tavolgendo
le istituzioni. Scavare il percorso lungo il quale la riforma dovrà scorrere è compito
che si ripartisce tra tutti i livelli di governo e tra gli organi che compongono ogni
livello.
Grava sullo Stato, anzitutto, e in primo luogo sul
Parlamento. Le Camere dovrebbero mettere urgentemente mano ai propri regolamenti per
disciplinare la partecipazione dei rappresentanti regionali alla Commissione parlamentare
per le questioni regionali, secondo quanto è previsto da quella svagata norma di chiusura
della legge costituzionale di riforma. Certo non è una soluzione seria e definitiva del
nodo serio e determinante della partecipazione regionale alle decisioni
"federali", ma piuttosto una di quelle fantasiose soluzioni arredative che hanno
fortuna presso i nostri "architetti costituzionali", quale la famosa formula
"due Camere e un camerino" che era emersa in Bicamerale e che è bastato un
corrosivo elzeviro di Montanelli a far crollare.
Tuttavia si tratta pur sempre di un passo importante in una direzione giusta, ed
oltretutto di un passo che verrebbe fatto nel momento più opportuno. Se è vero che la
riforma del Titolo V ha poca concretezza, ciò significa che la sua applicazione
dipenderà in larga parte da decisioni politiche successive: perché la riforma non si
blocchi definitivamente è perciò indispensabile che queste decisioni siano assunte in un
clima di accettabile collaborazione tra Stato, Regioni ed enti locali. In questa
prospettiva la soluzione prevista dalla riforma costituzionale rappresenta un indubbio
passo avanti rispetto alla situazione attuale, che è interamente incentrata sul ruolo
delle Commissioni Stato-Regioni, Stato-autonomie locali ecc.
Queste sono sedi squisitamente politiche, prive o quasi di garanzie formali e di immediati
riflessi giuridici; mentre la "regionalizzazione" della Commissione parlamentare
si rifletterebbe direttamente sul procedimento legislativo.
Se si dovesse indicare un ordine di priorità nelle mosse da compiere per attuare la
riforma costituzionale, la prima dovrebbe essere proprio quella appena indicata: numerosi
sono infatti gli atti legislativi necessari per attuare il nuovo Titolo V si pensi anche
solo alle leggi "di principio" nelle materie attribuite alla competenza
concorrente dello Stato, alle leggi in materia finanziaria, alle leggi che determinano
"ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia" per le Regioni
ordinarie, in base al nuovo art. 116, alla legge che disciplina la "partecipazione
ascensionale" delle regioni alle politiche comunitarie, ecc.), ed è indispensabile
che questa legislazione si definisca attraverso procedure di cooperazione ex ante,
e non di scontro giurisdizionale ex post. Emerge così chiaramente anche quale
ruolo deve essere svolto dal legislatore nazionale.
Un ruolo positivo, accanto al quale si prospetta però anche un ruolo, per così dire,
negativo, cioè il compito di prendere sul serio la riforma del Titolo V e di evitare
perciò di continuare a produrre leggi in palese contrasto con le nuove regole
costituzionali. Già la precedente legislatura non è, sotto questo profilo, senza colpe:
la stessa maggioranza che ha fortemente voluto la riforma non ha esitato a produrre, nello
stesso tempo in cui faceva avanzare il procedimento di revisione costituzionale, alcune
leggi che contraddicevano o comunque mostravano di ignorare il nuovo riparto di funzioni.
Ma oggi, entrando in vigore la riforma, un preciso vincolo giuridico si oppone alla
legislazione ordinaria che mostra di ignorarla. Prima che siano le Regioni ad opporsi ad
essa in sede giurisdizionale, è lo stesso Presidente della Repubblica ad essere chiamato
a svolgere il suo ruolo di garanzia, rinviando alle Camere le leggi incompatibili con il
nuovo assetto. È un ruolo importante e indispensabile, lunico strumento che possa
evitare che tutto il peso della riforma finisca con il gravare sulla Corte costituzionale.
Infatti la prospettiva più allarmante è proprio questa: che la Corte costituzionale, a
cui alcuni settori del mondo politico rimproverano aspramente e ingenerosamente di aver
contrastato in passato la realizzazione del disegno autonomistico, sia nuovamente chiamata
a gestire con i soli strumenti a sua disposizione, che sono quelli tipici di un giudice,
lattuazione di una riforma costituzionale che, come si è detto, necessità di
ulteriori scelte politiche per poter funzionare. Se il sistema politico non adempie ai
suoi doveri, la Corte costituzionale resterebbe schiacciata da una micidiale alternativa:
o denegare giustizia, abdicando alla sua funzione di giudice, e dire quello che mai ha
detto in passato, cioè che lattuazione del Titolo V è una questione della politica
che non può essere risolta da un giudice; oppure accettare di continuare nella sua
vecchia prassi di supplente della politica, riprendendo ad inventare strumenti e
meccanismi che consentano al sistema di funzionare. Nella prima ipotesi il risultato
sarebbe che vengono meno le regole e le garanzie costituzionali del disegno autonomistico
e la politica la farebbe da padrona; nella seconda ipotesi la Corte si ritroverebbe
sovresposta, al centro di critiche e attacchi politici. Tutto ciò è da evitare e il
Presidente della Repubblica non può non avvertirne lesigenza.
Ma anche sulle Regioni gravano responsabilità di notevole
peso che impongono ad esse di muoversi su versanti diversi. Il primo le porta ad essere
protagoniste al centro: ad intavolare le trattative con il Governo per stringere le intese
politiche necessarie allattuazione della riforma; a bussare alla porta della Camere
per sollecitare le modifiche dei loro regolamenti; a rivolgersi al Presidente della
Repubblica per chiederne lintervento quando il Parlamento approvasse leggi
contrastanti con le nuove regole costituzionali; a promuovere, come extrema ratio,
il contenzioso davanti alla Corte. Dalla capacità delle Regioni di attenuare le
reciproche diffidenze politiche e fissare alcuni punti strategici comuni da portare
insieme al tavolo delle trattative politiche dipende per una certa quota la direzione in
cui muoverà la ruota della riforma.
Per unaltra quota essa dipende dalla capacità delle Regioni di stringere alleanze
con i "propri" enti locali. Finché il timore del "centralismo
regionale" timore, in certi casi, tuttaltro che ingiustificato
spingerà gli enti locali, e soprattutto le loro rappresentanza nazionali, a cercare
protezione al centro, il Governo resterà arbitro incontrastato dei destini delle
autonomie regionali e di quelle locali.
Daltra parte le incertezze su come opererà la riforma costituzionale pesano
fortemente anche sul governo locale: si pensi anche soltanto alla questione dei controlli
o allesercizio dei poteri sostitutivi, questioni delicatissime e di immediata
attualità su cui non vè alcuna chiarezza. È importante che le Regioni onorino il
loro ruolo ed esercitino le loro attribuzione: e che riscoprano in questo momento la
funzione della legge come strumento di razionalizzazione e di certezza. Questo è un punto
di estrema importanza. Se la riforma del Titolo V è da prendere sul serio, il quadro che
si prospetta è marcatamente diverso dal passato. In passato, il vincolo che sottoponeva
la legge regionale ai princìpi della legislazione statale di settore faceva sì che
linnovazione legislativa (e linnovazione amministrativa, per la parte in cui
essa dipendeva dalla legge) fossero monopolio dello Stato (o della normativa comunitaria).
Oggi questo non è più vero. Anzi, il principale effetto del nuovo meccanismo di
distribuzione delle competenze è proprio di spezzare il monopolio statale e spostare in
larga parte sulle Regioni il compito dellinnovazione legislativa.
Ciò vale sicuramente per le materie "residuali", non rientranti nella
competenza esclusiva o concorrente dello Stato: ma, ovviamente, molti spazi si apriranno
anche nella legislazione concorrente. Le politiche locali dipenderanno in massima parte
dalle regole che detterà la Regione: allo stesso tempo, però, lattuazione
amministrativa di quelle politiche sarà in massima parte affidata
allamministrazione locale, che sarà liberà di scegliere le modalità con cui
procedere (gli enti locali, come dispone il nuovo art. 117.5, "hanno potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dellorganizzazione e dello svolgimento delle
funzioni loro attribuite").
Non possono sfuggire le implicazioni che da ciò derivano per i rapporti che legheranno la
Regione con il "sistema amministrativo" regionale. Fin da subito, sarà compito
delle leggi regionali tagliare i legami con la "vecchia" legislazione statale di
settore e con le relative soluzioni organizzative e procedurali ed aprire la strada
allinnovazione. Lo si può fare senza un foedus che unisca chi fa le leggi e
chi ne organizza lattuazione amministrativa?