N.2  1999 • ANNO XX - marzo/aprile
Editoriale/Roberto Bin
Grandi riforme, piccole virtù.

La proposta di riforma "federalista" del titolo V della Costituzione, presentata dal Ministro per le riforme costituzionali Giuliano Amato (e che in questo fascicolo viene pubblicata), segna un nuovo approccio alla politica delle riforme costituzionali, l’approccio "minimalista". Dopo l’inutile fragore di ottoni dei retorici annunci della Bicamerale; dopo il gigantismo del progetto globale di rifondazione costituzionale – progetto che si è sgretolato al fitto fuoco dei veti incrociati, riducendosi alla pochezza di un massimo comune divisore che offendeva persino il comune senso estetico, per non dire la coerenza della logica istituzionale; dopo che il "federalismo" è stato coniugato con tutte le possibili aggettivazioni, perdendo ogni volta un pezzo della sua anima: dopo tutto ciò, ben venga una proposta limitata, realistica, che muove verso obiettivi sufficientemente precisi. Ma l’attuale progetto corrisponde a questi requisiti, è una proposta convincente nel merito?

Il progetto Amato altro non è che una ripulitura, con poche varianti, del testo approvato in prima lettura dalla Camera dei deputati a seguito dell’esame della proposta di revisione licenziato dalla Commissione bicamerale. Il quadro dei rapporti tra centro e periferia che ne esce è piuttosto chiaro: è quello attuale, con qualche modesta razionalizzazione e qualche apparente rivoluzione. L’apparente rivoluzione è che, come nel progetto della Bicamerale, si applica la tecnica del rovesciamento del guanto, vale a dire che si enumerano solo le materie di competenza esclusiva dello Stato (quelle indicate nell’art. 117.2), mentre tutte le altre materie sono demandate alla legislazione regionale; resta solo una ridotta area di sovrapposizione tra i due livelli di legislazione, ossia un elenco di materie (art. 117.3) in cui allo Stato è riservata la "disciplina legislativa generale", mentre spetta alle Regioni la disciplina di dettaglio. Apparentemente il sistema è chiaro e segna una forte espansione della potestà legislativa regionale. Ma come potrebbe funzionare un sistema siffatto?

Prendiamo una materia chiave, come l’urbanistica: essa non è compresa nelle materie riservate allo Stato, né tra quelle a competenza "bipartita"; quindi le Regioni, di massima, dovrebbero vantare su di essa una competenza di tipo esclusivo. Anzi qualcosa di più della competenza esclusiva delle attuali Regioni speciali, perché molto opportunamente il disegno di riforma elimina quell’inquietante norma, contenuta nella proposta della Bicamerale, per cui allo Stato sarebbe riservata in via generale "la potestà legislativa per la tutela di imprescindibili interessi nazionali". Nessuno strumento avrebbe lo Stato per imporre alle Regioni regole e princìpi comuni: né l’interesse nazionale, né i princìpi dell’ordinamento, neppure le "grandi riforme".

Una vera rivoluzione, dunque, anche un po’ inquietante: davvero le Regioni sarebbero libere di regolare come vogliono il processo urbanistico e lo sviluppo edilizio? Ne dubito. L’urbanistica incide sulla conformazione della proprietà, ed è attualmente, come è noto, assistita da un sistematico ricorso a sanzioni penali: ma l’"ordinamento civile" e le "norme penali" sono di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, tra le materie "bipartite" sono incluse materie strettamente connesse all’urbanistica, come la "tutela dell’ambiente e dell’ecosistema", la "tutela dei beni culturali e ambientali", il "territorio". Infine, allo Stato è riservata la determinazione delle "funzioni fondamentali di Province, Comuni e Città metropolitane" (art. 117.2, lett. n), per cui è evidente che sarà la legge statale a definire gli strumenti di pianificazione urbanistica locale, il regime delle autorizzazioni comunali ecc.: fermo restando (perché lo dice ancora l’art. 117.7), che gli enti locali sono liberi di disciplinare "l’organizzazione delle funzioni e dei compiti amministrativi loro spettanti". E allora, di cosa potrà occuparsi la legge regionale?

Pienamente ancorato nella tradizione è il sistema delle relazioni "à trois" tra Stato, Regioni ed enti locali. Su questo le organizzazioni dei Comuni e delle Province hanno fatto argine, e il progetto Amato si adegua. Giustamente si preoccupa di garantire la partecipazione degli enti locali alle decisioni più importanti della Regione. Mi sembra incontestabile che risponda a pieno al principio di sussidiarietà la previsione di una duplice garanzia per gli enti locali: che il procedimento legislativo regionale veda il concorso del "Consiglio delle autonomie locali" (art. 123), e che le stesse autonomie locali siano coinvolte nel procedimento di approvazione dello Statuto regionale, in cui il Consiglio trova la sua disciplina (credo anzi che, per questo secondo profilo, sarebbe opportuno rafforzare il ruolo delle autonomie, dando a esse più precise funzioni decisionali). Ma se gli enti locali trovano nel processo di codecisione garanzie effettive ed efficaci contro le tendenze centralistiche delle Regioni, che senso ha mantenere il ruolo arbitrale e paternalistico dello Stato? È evidente che esso servirà a perpetuare la pesante ingerenza del legislatore statale nella disciplina delle materie, fissando competenze, funzioni, procedimenti, forme di azione amministrativa ecc. Ma è davvero questo che vogliono i Sindaci, quegli stessi "nuovi" Sindaci che hanno originariamente organizzato il loro movimento alzando il dito contro i "lacci e lacciuoli" imposti dalla caotica legislazione statale? O non è piuttosto questo il solito risultato di spinta centralistica che da sempre perseguono tutte le organizzazioni nazionali di categoria, anche quando si fregiano del distintivo dell’autonomia, come pretendono di fare Anci, Upi ecc.?

Un’altra apparente rivoluzione è la soppressione del controllo preventivo sulle leggi regionali: al Governo dovrebbe restare il solo strumento dell’impugnazione in via successiva, cioè quando la legge regionale è già in vigore (art. 124.1). Ma, ancora una volta, può funzionare davvero un sistema siffatto?

È a tutti noto che il controllo preventivo ha dato frutti molto negativi per l’autonomia delle Regioni, essendosi rivelato come uno dei fattori di distorsione dei rapporti con lo Stato: ma la sua soppressione è proprio la cura da prescrivere? Il progetto Amato, anche in questo seguendo le proposte precedenti della Bicamerale, s’immagina (o presuppone) un modello di regionalismo fortemente ispirato al "federalismo duale", cioè a un sistema di rigida separazione delle funzioni del centro da quelle degli enti periferici, entrambi forniti delle stesse armi di reazione contro eventuali sconfinamenti dell’altro. È un modello ideale, che da tempo non funziona più efficacemente in nessuna parte del mondo. Per di più, come si è visto, la ripartizione delle funzioni legislative, al di là dell’apparenza, non è affatto precisa né paritaria, restando in capo allo Stato numerosi canali di interferenza. Ma se lo Stato è concepito come una figura paternalistica, di tutore dell’ordinamento in genere e degli enti locali in particolare, è chiaro che il contenzioso con le Regioni resterà elevatissimo. La previsione del controllo solo successivo rischia perciò di trasformarsi in un fattore di forte instabilità dell’ordinamento, di una sistematica precarietà delle leggi regionali. Chi sarà il temerario che darà applicazione ad esse prima che siano trascorsi i sessanta giorni utili all’impugnazione da parte del Governo?

Qui tocchiamo il vero punto debole del disegno Amato. Esso muove ancora nella logica, tutta politica, del massimo comune divisore: prende le mosse da un testo di legge costituzionale su cui in Parlamento si è già verificata la sussistenza di un vasto consenso politico. È la sua "fattibilità politica" il motivo che ha indotto il Ministro a riproporre il progetto. Ma qualcuno ha riflettuto sulla sua "fattibilità" istituzionale, sulla sua possibilità di funzionare, di dare una soluzione operativa ai noti problemi di funzionalità che ha dimostrato di avere l’attuale assetto delle relazioni centro-periferia? È davvero consapevole la scelta di un modello "dualista" e competitivo? Ho sempre pensato, e non sono certo l’unico, che il modello dell’attuale Costituzione sia fallito perché ritagliato sul vecchio figurino del federalismo dualista, proprio quando i paesi, in cui quel tipo di federalismo era sorto, già avevano sviluppato meccanismi assai forti tipici del federalismo cooperativo. Una Costituzione tutta tesa a separare le sfere di competenza e garantirne l’inviolabilità era fallita perché aveva trascurato di disegnare le forme e le procedure della collaborazione (anche il farraginoso meccanismo del controllo preventivo sulla legge regionale era, in fondo, un modo per supplire alla deficienza di più limpide procedure collaborative), e questa si è sviluppata tutta in via di prassi, legislazione ordinaria e giurisprudenza, in spudorata ma necessaria deroga alle regole costituzionali. Che senso ha allora riproporre una Costituzione ancora più marcatamente ancorata a quel modello?

Ciò risulta tanto più paradossale quando si guardi all’altro versante della riforma, quello dei rapporti tra Regione ed enti locali. Qui, giustamente, è il modello cooperativo a essere richiamato e tradotto in organi e procedure: nulla si dice del riparto di funzioni "per materie", ma si rinvia ai meccanismi procedurali della codecisione il riparto dinamico – cioè fissato di volta in volta, discutendo le singole leggi – delle competenze. Perché non si è optato per lo stesso metodo anche a proposito dei rapporti tra lo Stato e le Regioni? Perché non era politicamente "fattibile".

Il nodo della riforma del Senato, la forte opposizione politica (e corporativa) verso la sua trasformazione in una Camera delle autonomie, ha bloccato ogni sviluppo della riforma del titolo V in direzione del modello cooperativo. Ma questo è un errore che pregiudica ogni riforma, grande o piccola che sia, compreso il progetto minimalista del Ministro Amato. Basterebbe uno sforzo di fantasia in più, o forse un po’ più di convinzione sulla necessità di una riforma efficace del sistema delle autonomie. È stato un errore insistere tanto sulla rappresentanza parlamentare delle autonomie, sulla regionalizzazione della seconda Camera. In fondo, come è noto, neppure il Bundesrat tedesco è propriamente una "Camera" parlamentare. L’importante non è potere chiamare "onorevole" il rappresentante delle Regioni, ma ottenere un risultato preciso e concreto: che nella produzione legislativa nazionale si crei una differenziazione per cui tutte le leggi (e le altre decisioni) che toccano le autonomie siano prese con il consenso dei loro rappresentanti, e non possano poi essere erose dall’infinità di leggi, leggine e collegati alla finanziaria. Ma questo risultato si può ottenere con modesti ritocchi alle norme costituzionali sul procedimento legislativo, magari prevedendo un ruolo costituzionale della Conferenza dei Presidenti delle Regioni o di qualche altro organo rappresentativo, senza dare a esso lo status di seconda Camera.

Basterebbe questo a innescare il circolo virtuoso del federalismo cooperativo, a sdrammatizzare il problema di ripartire, una volta per sempre, le materie per elenchi, a ridurre un contenzioso giurisdizionale che è impressionante. Piccole virtù, appunto, ma che richiedono la voglia di farle davvero le riforme, piccole o grandi che siano: pensando alla bontà dei loro effetti operativi, non al gioco politico cui esse potrebbero servire