Sulla sussidiarietà
cè ormai, non solo una vasta pubblicistica, ma una non trascurabile produzione
normativa. La Commissione bicamerale ne ha fatto il perno del sistema delle autonomie; la
Camera dei deputati ne ha discusso a lungo, esaminando centinaia di emendamenti sul punto
e riformando il testo uscito dalla Bicamerale. Su un piano diverso, la legge 59 (la
"Bassanini" I, in gergo) ne ha fatto il principale motivo ispiratore del vasto e
lungo processo di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia: lha indicata
come il principio che deve ispirare i decreti legislativi delegati, le conseguenti leggi
regionali di conferimento delle funzioni agli enti locali, i successivi decreti del
Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse alle Regioni e agli
enti locali e se saranno necessari gli ulteriori atti regionali di ulteriore
trasferimento delle risorse agli enti locali. Questa è quel che si chiama la
"sussidiarietà verticale", perché accanto ad essa deve operare un processo
parallelo di riduzione del peso del "pubblico", nel suo complesso, a favore
della società, ossia la "sussidiarietà orizzontale".
Laffresco è seducente, ma non troppo promettente. Quando il legislatore scrive
un principio in una legge, ci si dovrebbe aspettare che questo principio opererà in
termini normativi: certo non nei termini diretti e immediati in cui operano normalmente le
regole che creano diritti, doveri, oneri ecc., ma comunque con qualche ricaduta di tipo
normativo. Ciò vale anche per i princìpi, spesso generalissimi, enunciati nelle
costituzioni, come il principio di eguaglianza, la laicità dello stato o il diritto alla
salute. Sono princìpi che trovano ogni giorno applicazione nelle aule giudiziarie. Ma
tutto questo non vale per la sussidiarietà, e in particolare per la sussidiarietà
"verticale".
In nessuno dei contesti normativi in cui il principio sussidiarietà è stato inserito,
esso è riuscito a trovare modo di essere applicato, sia pure indirettamente, dai giudici.
Così è stato sinora in Germania, nella cui Costituzione proprio i Länder avevano
chiesto ed ottenuto, in fase di riforma della Costituzione per lattuazione del
Trattato di Maastricht, linserimento di questo principio come parte di un
sostanzioso pacchetto di garanzie del proprio ruolo, ma dove nessun giudice ha ritenuto
che la sussidiarietà potesse essere uno strumento giuridico di cui avvalersi. Così è
stato sinora nellUnione europea: qui, in occasione del recente Trattato di
Amsterdam, che ha modificato in molti punti il Trattato di Maastricht, si è sentita la
necessità di dedicare un lungo protocollo alla spiegazione di che cosa sia il principio
di sussidiarietà e come possa operare quale criterio giuridico incidente sulle procedure
decisionali, sulla scelta degli strumenti normativi ecc.
E in Italia? In Italia la sussidiarietà è stata inserita nella "legge
Bassanini", quale criterio di guida per la distribuzione delle funzioni
amministrative tra i diversi livelli di governo, con una duplice funzione
"normativa": è uno dei "princìpi e criteri direttivi" che devono
guidare il Governo nellattuazione della delega legislativa, ed è uno dei
"princìpi fondamentali della materia" che devono guidare le regioni nella
legislazione dattuazione. Di fronte a questo duplice compito affidato al principio
di sussidiarietà, noi possiamo porci due interrogativi: se lattuazione della legge
da parte del Governo (quella da parte delle Regioni è appena nella prima fase di
elaborazione) abbia risposto al criterio della sussidiarietà; se il criterio della
sussidiarietà potrà costituire una garanzia per le Regioni e per gli enti locali, ossia
potrà essere un parametro giuridico da invocare di fronte alla Corte costituzionale per
lamentare atteggiamenti eccessivamente "centralistici" del Governo (o delle
stesse Regioni nei confronti degli enti locali).
Al primo interrogativo la risposta non può che essere complessa e variegata: dipende
da unattenta valutazione dei singoli decreti delegati e delle singole loro parti; e
dipende soprattutto da quanto il Governo farà nelle successive fasi di cui si compone
questo processo, ossia nella emanazione dei decreti presidenziali che affronteranno i nodi
più spinosi del trasferimento (le strutture, le risorse, i beni ecc.). Con questo
fascicolo la Rivista vuole appunto inaugurare una lunga e analitica riflessione sui
risultati di questo processo e le prospettive che si aprono.
Quanto al secondo interrogativo, qualche perplessità è inevitabile. Che la Corte
possa invalidare qualche disposizione dei decreti delegati perché costituiscono un vulnus
alla sussidiarietà mi pare francamente improbabile. Al massimo la Corte chiamerà
"sussidiarietà" quello che ha sempre, nella sua giurisprudenza storica,
chiamato "interesse": interesse nazionale, regionale o locale. Chi conosce
questa giurisprudenza sa che non ci si può aspettare che la Corte apra porte che il
legislatore delegato ha lasciato chiuse: il principio di sussidiarietà non è una chiave
giuridica efficiente, così come non lo è stato il "variabile livello degli
interessi" che tanto spesso la Corte ha dovuto maneggiare in passato con malcelato
imbarazzo. Ma, daltra parte, l"operazione Bassanini" era annunciata
"a costituzione vigente", ed anche questa prevedibile nota di continuità nella
giurisprudenza costituzionale è una conseguenza degli irrisolti nodi della costituzione
attuale.
Forse va riconosciuto al legislatore statale di aver colto la vera essenza della
sussidiarietà sotto un diverso profilo. La dottrina ha insistito su un aspetto della
sussidiarietà: essa acquista un significato preciso non tanto come criterio sostanziale
di ripartizione delle funzioni, quanto piuttosto sul piano procedurale. La sussidiarietà
è infatti il criterio proprio di un sistema cooperativo, in cui la rigida
predeterminazione del riparto delle funzioni è stemperata, se non sostituita, da
procedure di codeterminazione dei compiti: le garanzie della sussidiarietà si traducono
quindi in garanzie di procedimento. Da questo punto di vista, sia la legge 59 che i
decreti attuativi segnano importanti innovazioni: a partire dalla riforma degli organi di
concertazione tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali (riforma attuata con il decreto
legislativo 281/1997, al cui commento è stato dedicato il primo fascicolo 1998 della
Rivista), chiamati a partecipare alla formazione dei decreti delegati e dei conseguenti
d.P.C.M.; dalle procedure (di fatto disattese, però, in fase di attuazione) di preventiva
codeterminazione dei "compiti di rilievo nazionale del sistema di protezione civile,
per la difesa del suolo, per la tutela dellambiente e della salute, per gli
indirizzi, le funzioni e i programmi nel settore dello spettacolo, per la ricerca, la
produzione, il trasporto e la distribuzione di energia" (art. 1.4, lett. c della
legge 59); dalla originalissima attivazione delle Regioni, quasi in sostituzione del
Governo, nel caso in cui questo ritardi lemanazione dei d.P.C.M., prevista dai commi
10 e 11 dellart. 7 del "decretone" 112/1998.
Le innovazioni nel segno della sussidiarietà nella legislazione ordinaria non mancano
dunque. Assai diverso è il giudizio sul parallelo lavoro di riforma costituzionale. Qui
lirrisolto nodo di una effettiva rappresentanza territoriale delle autonomie nel
Senato toglie qualsiasi credibilità alle enunciazioni di principio sulla sussidiarietà.
Enunciazioni smentite poi nei fatti dallapprovazione di una serie di emendamenti che
attraggono al centro decisioni che certo il centro non può assumere con maggior
efficienza della periferia. Mi riferisco alla previsione che sia la legge dello Stato, e
non le Regioni, a decidere delle città metropolitane e a definire il livello demografico
minimo dei Comuni, sotto il quale le funzioni comunali devono essere esercitate in forma
associata: frutto di una visione centralistica ahimé sostenuta dalle rappresentanze
nazionali degli enti locali.
Ma laspetto più grave è che tutto ciò che la Bicamerale prima e la Camera poi
hanno scritto in tema di sussidiarietà sia interamente concepito nellottica della
ripartizione dei poteri tra gli apparati pubblici e mai dal punto di vista dei cittadini:
non è proprio dai cittadini che parte invece la filosofia stessa della sussidiarietà? E
allora perché non provare a rovesciare il prisma e immaginare che le proposizioni
dedicate alla sussidiarietà "verticale" inizino dicendo che è diritto dei
cittadini ad avere un unico interlocutore per tutte le funzioni esercitate dalla pubblica
amministrazione? Il Comune è certo lamministrazione più vicina ai cittadini, ma
questo non può tradursi in un pretesto per attrarre funzioni amministrative
allamministrazione comunale se non si pensa prima e prioritariamente a quale
giovamento può trarne il cittadino. Forse basterebbe proprio scrivere quello che sinora
nel progetto di costituzione non si è scritto: che il Comune è lunica
amministrazione pubblica che il cittadino ha di fronte; e da questa premessa poi
ricostruire il sistema delle competenze e gli intrecci dei procedimenti. Un po come
il decreto "Bassanini" ha fatto istituendo lo "sportello unico" per le
imprese.
Utopia? Forse un disegno così ambizioso di riforma costituzionale una certa dose di
utopia deve contenerla se vuole raccogliere linteresse e il consenso dei consociati.
E se poi parla come una Costituzione deve fare il linguaggio dei diritti,
dei diritti azionabili davanti ad un giudice, e non quello delle formule vuote, forse
alcune di queste parole vuote, come la sussidiarietà, potranno finalmente riempirsi di
contenuto.