N.2-3 1998 ANNO XIX - marzo/giugno
Editoriale/Roberto Bin
Sussidiarietà o diritti dei cittadini?

Sulla sussidiarietà c’è ormai, non solo una vasta pubblicistica, ma una non trascurabile produzione normativa. La Commissione bicamerale ne ha fatto il perno del sistema delle autonomie; la Camera dei deputati ne ha discusso a lungo, esaminando centinaia di emendamenti sul punto e riformando il testo uscito dalla Bicamerale. Su un piano diverso, la legge 59 (la "Bassanini" I, in gergo) ne ha fatto il principale motivo ispiratore del vasto e lungo processo di devoluzione dei poteri dal centro alla periferia: l’ha indicata come il principio che deve ispirare i decreti legislativi delegati, le conseguenti leggi regionali di conferimento delle funzioni agli enti locali, i successivi decreti del Presidente del Consiglio dei ministri di trasferimento delle risorse alle Regioni e agli enti locali e — se saranno necessari — gli ulteriori atti regionali di ulteriore trasferimento delle risorse agli enti locali. Questa è quel che si chiama la "sussidiarietà verticale", perché accanto ad essa deve operare un processo parallelo di riduzione del peso del "pubblico", nel suo complesso, a favore della società, ossia la "sussidiarietà orizzontale".

L’affresco è seducente, ma non troppo promettente. Quando il legislatore scrive un principio in una legge, ci si dovrebbe aspettare che questo principio opererà in termini normativi: certo non nei termini diretti e immediati in cui operano normalmente le regole che creano diritti, doveri, oneri ecc., ma comunque con qualche ricaduta di tipo normativo. Ciò vale anche per i princìpi, spesso generalissimi, enunciati nelle costituzioni, come il principio di eguaglianza, la laicità dello stato o il diritto alla salute. Sono princìpi che trovano ogni giorno applicazione nelle aule giudiziarie. Ma tutto questo non vale per la sussidiarietà, e in particolare per la sussidiarietà "verticale".

In nessuno dei contesti normativi in cui il principio sussidiarietà è stato inserito, esso è riuscito a trovare modo di essere applicato, sia pure indirettamente, dai giudici. Così è stato sinora in Germania, nella cui Costituzione proprio i Länder avevano chiesto ed ottenuto, in fase di riforma della Costituzione per l’attuazione del Trattato di Maastricht, l’inserimento di questo principio come parte di un sostanzioso pacchetto di garanzie del proprio ruolo, ma dove nessun giudice ha ritenuto che la sussidiarietà potesse essere uno strumento giuridico di cui avvalersi. Così è stato sinora nell’Unione europea: qui, in occasione del recente Trattato di Amsterdam, che ha modificato in molti punti il Trattato di Maastricht, si è sentita la necessità di dedicare un lungo protocollo alla spiegazione di che cosa sia il principio di sussidiarietà e come possa operare quale criterio giuridico incidente sulle procedure decisionali, sulla scelta degli strumenti normativi ecc.

E in Italia? In Italia la sussidiarietà è stata inserita nella "legge Bassanini", quale criterio di guida per la distribuzione delle funzioni amministrative tra i diversi livelli di governo, con una duplice funzione "normativa": è uno dei "princìpi e criteri direttivi" che devono guidare il Governo nell’attuazione della delega legislativa, ed è uno dei "princìpi fondamentali della materia" che devono guidare le regioni nella legislazione d’attuazione. Di fronte a questo duplice compito affidato al principio di sussidiarietà, noi possiamo porci due interrogativi: se l’attuazione della legge da parte del Governo (quella da parte delle Regioni è appena nella prima fase di elaborazione) abbia risposto al criterio della sussidiarietà; se il criterio della sussidiarietà potrà costituire una garanzia per le Regioni e per gli enti locali, ossia potrà essere un parametro giuridico da invocare di fronte alla Corte costituzionale per lamentare atteggiamenti eccessivamente "centralistici" del Governo (o delle stesse Regioni nei confronti degli enti locali).

Al primo interrogativo la risposta non può che essere complessa e variegata: dipende da un’attenta valutazione dei singoli decreti delegati e delle singole loro parti; e dipende soprattutto da quanto il Governo farà nelle successive fasi di cui si compone questo processo, ossia nella emanazione dei decreti presidenziali che affronteranno i nodi più spinosi del trasferimento (le strutture, le risorse, i beni ecc.). Con questo fascicolo la Rivista vuole appunto inaugurare una lunga e analitica riflessione sui risultati di questo processo e le prospettive che si aprono.

Quanto al secondo interrogativo, qualche perplessità è inevitabile. Che la Corte possa invalidare qualche disposizione dei decreti delegati perché costituiscono un vulnus alla sussidiarietà mi pare francamente improbabile. Al massimo la Corte chiamerà "sussidiarietà" quello che ha sempre, nella sua giurisprudenza storica, chiamato "interesse": interesse nazionale, regionale o locale. Chi conosce questa giurisprudenza sa che non ci si può aspettare che la Corte apra porte che il legislatore delegato ha lasciato chiuse: il principio di sussidiarietà non è una chiave giuridica efficiente, così come non lo è stato il "variabile livello degli interessi" che tanto spesso la Corte ha dovuto maneggiare in passato con malcelato imbarazzo. Ma, d’altra parte, l’"operazione Bassanini" era annunciata "a costituzione vigente", ed anche questa prevedibile nota di continuità nella giurisprudenza costituzionale è una conseguenza degli irrisolti nodi della costituzione attuale.

Forse va riconosciuto al legislatore statale di aver colto la vera essenza della sussidiarietà sotto un diverso profilo. La dottrina ha insistito su un aspetto della sussidiarietà: essa acquista un significato preciso non tanto come criterio sostanziale di ripartizione delle funzioni, quanto piuttosto sul piano procedurale. La sussidiarietà è infatti il criterio proprio di un sistema cooperativo, in cui la rigida predeterminazione del riparto delle funzioni è stemperata, se non sostituita, da procedure di codeterminazione dei compiti: le garanzie della sussidiarietà si traducono quindi in garanzie di procedimento. Da questo punto di vista, sia la legge 59 che i decreti attuativi segnano importanti innovazioni: a partire dalla riforma degli organi di concertazione tra lo Stato, le Regioni e gli enti locali (riforma attuata con il decreto legislativo 281/1997, al cui commento è stato dedicato il primo fascicolo 1998 della Rivista), chiamati a partecipare alla formazione dei decreti delegati e dei conseguenti d.P.C.M.; dalle procedure (di fatto disattese, però, in fase di attuazione) di preventiva codeterminazione dei "compiti di rilievo nazionale del sistema di protezione civile, per la difesa del suolo, per la tutela dell’ambiente e della salute, per gli indirizzi, le funzioni e i programmi nel settore dello spettacolo, per la ricerca, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia" (art. 1.4, lett. c della legge 59); dalla originalissima attivazione delle Regioni, quasi in sostituzione del Governo, nel caso in cui questo ritardi l’emanazione dei d.P.C.M., prevista dai commi 10 e 11 dell’art. 7 del "decretone" 112/1998.

Le innovazioni nel segno della sussidiarietà nella legislazione ordinaria non mancano dunque. Assai diverso è il giudizio sul parallelo lavoro di riforma costituzionale. Qui l’irrisolto nodo di una effettiva rappresentanza territoriale delle autonomie nel Senato toglie qualsiasi credibilità alle enunciazioni di principio sulla sussidiarietà. Enunciazioni smentite poi nei fatti dall’approvazione di una serie di emendamenti che attraggono al centro decisioni che certo il centro non può assumere con maggior efficienza della periferia. Mi riferisco alla previsione che sia la legge dello Stato, e non le Regioni, a decidere delle città metropolitane e a definire il livello demografico minimo dei Comuni, sotto il quale le funzioni comunali devono essere esercitate in forma associata: frutto di una visione centralistica ahimé sostenuta dalle rappresentanze nazionali degli enti locali.

Ma l’aspetto più grave è che tutto ciò che la Bicamerale prima e la Camera poi hanno scritto in tema di sussidiarietà sia interamente concepito nell’ottica della ripartizione dei poteri tra gli apparati pubblici e mai dal punto di vista dei cittadini: non è proprio dai cittadini che parte invece la filosofia stessa della sussidiarietà? E allora perché non provare a rovesciare il prisma e immaginare che le proposizioni dedicate alla sussidiarietà "verticale" inizino dicendo che è diritto dei cittadini ad avere un unico interlocutore per tutte le funzioni esercitate dalla pubblica amministrazione? Il Comune è certo l’amministrazione più vicina ai cittadini, ma questo non può tradursi in un pretesto per attrarre funzioni amministrative all’amministrazione comunale se non si pensa prima e prioritariamente a quale giovamento può trarne il cittadino. Forse basterebbe proprio scrivere quello che sinora nel progetto di costituzione non si è scritto: che il Comune è l’unica amministrazione pubblica che il cittadino ha di fronte; e da questa premessa poi ricostruire il sistema delle competenze e gli intrecci dei procedimenti. Un po’ come il decreto "Bassanini" ha fatto istituendo lo "sportello unico" per le imprese.

Utopia? Forse un disegno così ambizioso di riforma costituzionale una certa dose di utopia deve contenerla se vuole raccogliere l’interesse e il consenso dei consociati. E se poi parla — come una Costituzione deve fare — il linguaggio dei diritti, dei diritti azionabili davanti ad un giudice, e non quello delle formule vuote, forse alcune di queste parole vuote, come la sussidiarietà, potranno finalmente riempirsi di contenuto.