N.1 2000 • ANNO XXI - gennaio/febbraio
Editoriale/Roberto Bin
L’Europa e le elezioni regionali

Questo fascicolo della Rivista è dedicato all’Europa. Inizia con uno scritto postumo di Federico Mancini, un bellissimo canto d’amore per l’Europa e per la sua unificazione, la sua integrazione democratica. È una prospettiva forse più lontana nelle menti degli studiosi di quanto lo sia nella realtà. Perché le menti degli studiosi hanno radici profonde nella storia e vedono il futuro come prosecuzione coerente, se non lineare, del passato: la realtà invece è "irregolare" e può sempre sorprenderci. Già oggi, se dobbiamo definire l’Europa come istituzione, ricorriamo a figure geometriche che sfuggono alla "regolare" (ossia, artificiale) geometria euclidea: l’Europa come dimensione frattalica, un fractus che sta in mezzo alle dimensioni canoniche, le figure storicamente consolidate di organizzazione politica. L’Europa non è più un’organizzazione internazionale, è molto di più di una confederazione, non è ancora uno Stato unitario a struttura federale, così come lo conosciamo perché lo abbiamo ereditato dal passato. Dal passato, appunto.

Molti degli equivoci attorno all’Europa derivano dal passato e dalle sue "forme". A pensarci, è del tutto ragionevole aspettarsi che le forme di organizzazione politica del futuro non siano coerenti con l’esperienza storica, che è poi un’esperienza tutta calata nella storia europea di un paio di secoli o poco più. Insomma, la modellistica disponibile è insufficiente a comprendere la realtà (le brache messe alla storia, nella famosa metafora di Marx ripresa da Federico Mancini a conclusione del suo scritto). Molte delle critiche che si fanno alle istituzioni europee (per il resto in molte cose criticabili) derivano dall’incapacità di adattare loro le brache. Si pensi alla questione del deficit democratico.

Che l’Europa abbia un deficit di controllo democratico è un punto certo. È assolutamente logico che, sviluppatasi attraverso gli strumenti internazionalistici dell’organizzazione di Stati, la Comunità europea abbia rafforzato i poteri degli esecutivi e su di essi si sia basata. Molto meno scontato è che la risposta debba essere l’estensione dei poteri del Parlamento europeo: certo, questo sarebbe lo schema di sviluppo storico dell’organizzazione politica europea come l’abbiamo studiato noi, ma è solo uno schema, uno schema che punta a riprodurre a livello europeo le sembianze organizzative dello Stato unitario rappresentativo. Di fronte a una prospettiva di questo tipo, tutti avvertono l’enormità del passo: la trasformazione dell’Europa in una federazione, così come essa è organizzata nei modelli storici, non può che far sorgere le perplessità e le opposizioni di chiunque percepisca le differenze culturali e linguistiche, la mancanza di una "nazione", la diversità delle tradizioni e degli interessi. Nel frattempo si perde d’attenzione l’altro aspetto, cioè il deficit democratico che si sta approfondendo negli stessi Stati nazionali, in cui la capacità di controllo e di direzione politica dei parlamenti nazionali sugli esecutivi nazionali è al minimo storico, e mostra la corda proprio sul versante europeo e delle relazioni internazionali. Non sarebbe proprio attraverso un maggior impegno comunitario dei parlamenti nazionali che si potrebbe ricuperare parte del deficit democratico dell’Europa? Non sarebbe un modo, anche, per creare le radici politiche del parlamento europeo, che attualmente è "rappresentativo" solo perché "elettivo", ma manca di "presa" nell’elettorato, da cui è troppo lontano?

Meno sentito, forse, ma non meno reale è il deficit rappresentativo che le istituzioni europee hanno nei confronti delle collettività locali substatali. Anche qui la risposta è stata di tipo istituzionale, il Comitato delle Regioni. La ritengo una risposta sbagliata, e non solo per le difficoltà di organizzare la rappresentanza di una realtà enormemente frastagliata e complessa. È sbagliata perché la rappresentanza delle collettività è anzitutto un problema interno, problema che ogni paese sta, in effetti, cercando di risolvere, con strumentazioni diverse perché diverse sono le situazioni rispettive. È un problema molto sentito in Italia, perché qui siamo ancora molto lontani dal trovare la soluzione. Essa sembra ormai ruotare attorno alla Conferenza Stato-Regioni, cioè attorno al ruolo politico che le Regioni, e i loro Presidenti per esse, riescono a giocare nei confronti del Governo (da questo punto di vista, ogni passo che si farà verso un rafforzamento della rappresentanza delle istituzioni regionali, a livello di esecutivi, rischierà però di produrre un passo indietro nel controllo democratico esercitato dalle istituzioni parlamentari). Se ciò è vero, diviene fondamentale il rafforzamento "politico" delle Regioni. Le imminenti elezioni regionali entrano dunque al centro della scena.

Sono probabilmente le elezioni regionali più importanti dopo quelle del 1970. Allora si trattava di eleggere una nuova classe politica, capace di dare un volto all’istituzione regionale, sia sul piano statutario che su quello dell’organizzazione. Ora si tratta di eleggere, attorno ad un leader, una classe politica capace di riformare gli Statuti e di rimodellare l’organizzazione regionale per adattarla ad una missione che è ancora tutta da inventare. Nel 1970 lo slogan era ‘la Regione per la programmazione’: la realtà ha abbondantemente deviato dalle promesse e le Regioni hanno edificato apparati burocratici pesanti e, in molti casi, oppressivi delle autonomie locali. Oggi, dopo le riforme "Bassanini", sembra che l’amministrazione regionale sia destinata a defluire in periferia e alla Regione venga richiesto soprattutto di svolgere un ruolo squisitamente politico, di rappresentanza delle collettività locali nelle sedi nazionali e comunitarie, di interpretazione delle loro vocazioni economiche, di coordinamento dei fattori dello sviluppo. Il rafforzamento della figura del Presidente della Giunta regionale si accompagna perfettamente a questo mutato scenario: dovrà spendere l’autorevolezza che gli deriva dall’investitura democratica diretta per rafforzare il peso politico della Regione nella negoziazione con il Governo e con la Commissione. Se ciò accadrà, un piccolo passo avanti sarà compiuto, in fondo, anche sulla strada della riduzione del deficit democratico che ancora affligge le istituzioni europee.